Lezioni

Apro i commenti, che mi sono utili pareri, integrazioni e obiezioni costruttive a un corso di pensieri. Non so se ne arriveranno, che i migliori di voi saranno stroncati dalla lunghezza e dal disordine di queste riflessioni. Sono dense, pesanti: volevo mettere carne al fuoco e non mi sono curato di condirla. Non le ho neanche rilette. Proviamo.

Sto scrivendo e cercando di capire una cosa, che è resa complicata dalla nostra tendenza a discutere più le parole che il loro significato. Inciso: io credo che il 70% delle cose di cui si discute sia fuorviato da equivoci di significato, in buona o cattiva fede. Comunque. Io ho sempre pensato che l’accusa contro la “superiorità morale della sinistra” fosse spiegabile solo con un complesso di inferiorità, vista la sua palese insensatezza. Ognuno di noi pensa infatti – in misure diverse, con più o meno dubbi e disponibilità a cambiare idea – che le sue opinioni e ragioni abbiano un fondamento, e quindi siano più motivate di altre. Esistono proprio perché hanno un fondamento. Quindi non sono (più o meno temporaneamente) migliori “in quanto sue”, ma in quanto ci ha pensato, almeno un po’. Voglio insomma dire che ognuno attribuisce una “superiorità” alla sua opinione, visto che ce l’ha. A meno che non ne sia molto insicuro, e può capitare: ma di solito questo ha a che fare con il non averci riflettuto abbastanza, o non essersi documentato abbastanza, o non aver capito abbastanza cose, e quindi quell’opinione ha di fatto una sua “inferiorità” morale, nel senso che ha minore fondamento. Poi ci possono essere la spocchia, la supponenza, la presunzione, la rigidità: ma avere un’opinione e pensare che sia la migliore tra quelle di propria conoscenza non solo non è esecrabile, ma è ovviamente normale. E spocchia, presunzione eccetera sono discutibili e antipatiche, ma non influiscono sul valore delle cose che uno dice. Sono due piani diversi.

Proseguo, che il discorso è lungo e la questione intricata. In questi anni di maggior accesso per tutti alle possibilità di affermazione pubblica di sé, e di maggiore competizione per ottenerla, si sono date man forte due attitudini che hanno esaltato e aumentato le nostre vanità. Una è l’uso del sapere e delle informazioni – in vari modi e contesti – per guadagnare credibilità, farsi notare, ottenere riconoscimento pubblico. Nel piccolo e nel grande, ci infiliamo quasi tutti ogni giorno in diverse misure nella parte di quello che sa una cosa, che la dice per primo, che l’aveva notata per primo, che non si fa fregare da quel che credono tutti o che si dice in giro. Saperla lunga è diventato un modo per “esistere”, per competere, e per vincere. Forse siamo già a una tappa successiva, in cui l’esibizione di sapere è un tic incontrollabile che sconfigge persino il pericolo di farsi invece malvolere e disistimare. Pensiamo che l’umiltà sia diventata troppo invisibile nel casino generale per poter essere notata e diventare notevole: e quindi ci sentiamo costretti a esibire noi stessi, perché altrimenti tutta la nostra sapienza e le nostre qualità non le noterebbe nessuno.
È lo stesso meccanismo di quelli che urlano nei dibattiti televisivi solo perché urlano tutti gli altri, e se non urlano temono – con ragione – che non li si noti. E sto presentando così la seconda attitudine, che è il rifiuto dell’umiltà e dell’ammissione dei propri limiti, anche quelli più ovvii. In questo sistema, infatti, non sapere delle cose è vissuto come una sconfitta e una diminuzione. In questo sistema continuamente competitivo in cui ogni spaio e visibilità orttenuta da un altro sono lo spazio e visibilità che sto perdendo io, l’eventualità che qualcuno ci dica cose che non sappiamo corrisponde a un’ammissione di sconfitta invece che a un implicito successo. Non so se sbaglio, ma mi pare somigli all’orgoglio del non voler accettare aiuto, o regali, o soldi: che tu mi dia dei soldi di cui ho bisogno sarebbe forse utile, ma mi offende. Perché corrisponde a una dimostrazione di non essere in grado di farcela da solo, e di sapermeli “guadagnare” quei soldi, in cambio di qualcosa che ho da offrire. Ma il sapere, la comprensione delle cose, non sono come i soldi, non si ottengono solo in cambio di qualcosa. Sono sempre circolati anche a pagamento, ma in forma di economia accessoria e successiva: il primo meccanismo di diffusione del sapere è quello che ricambiamo ritrasmettendolo ad altri a nostra volta. Il ricevere lezioni, insegnamenti, informazioni, opinioni diverse, non può essere umiliante in quanto tale. Può accadere, daccapo, che le intenzioni di chi ce le trasmette siano piccine o vanitose, o I suoi modi eventualmente antipatici: ma questo non può implicare un rifiuto a priori dell’idea di conoscere nuove cose attraverso ciò che sanno e pensano gli altri.
Invece, ultimamente, a orientare la nostra disponibilità a confrontarci col sapere e i pensieri altrui è la frase “non accetto lezioni”. Nessuno “accetta lezioni” (su questo ho già scritto), e anzi rivendica fieramente questo rifiuto, questa assurda amputazione di ciò di cui più abbiamo bisogno e che più ci arricchisce: lezioni.
In realtà, lo capite, non siamo così stupidi: quello che non accettiamo non è nuovo sapere, nuove informazioni, nuove comprensioni delle cose che ci renderanno migliori o che ci potremo almeno rivendere al giro successivo. Quello che non accettiamo è che siano “lezioni”, e che il nostro riceverle ci ponga in una condizione subordinata rispetto a chi ce le dà: e che ci sembra subordinata in modo insopportabilmente umiliante. Questo ha a che fare con le cose che abbiamo detto finora, ma anche con una grande e recente perdita di rispetto per le qualità altrui e per l’idea che ci possano essere persone più colte di altre, più sagge di altre, più intelligenti di altre, più esperte di altre, e soprattutto più colte, sagge, intelligenti ed esperte di noi. Ma anche più banalmente che su ogni tema, su ogni ambito, su ogni esperienza, le eccellenze siano distribuite. Il nostro odioso e maleducato vicino di pianerottolo può essere il maggior esperto del mondo di solai in legno. La sua opinione sulla trave che ci si è incrinata in salotto non sarà meno fondata perché è odioso e maleducato, e non ci sarà meno utile per questo. L’eccellenza, le piccole e puntuali eccellenze, non sono più premiate e ammirate: sono piuttosto viste con sospetto e competizione.
Qui c’è un altro gancio, che cito solo di passaggio: quello col discorso sulla qualità della classe politica e delle persone che votiamo ed eleggiamo, e sui sentimenti di invidia e disistima che nutriamo per le esibizioni di qualità e competenza che poi ci portano a votare persone “normali” e “come noi”, piuttosto che uomini e donne che siano più bravi di noi: perché non ammettiamo che lo possano essere. Ma è un discorso in parte già fatto e che in parte complica le cose.

Mi avvicino invece al punto, ma ci abbiamo già girato molto vicino. Io credo che il confronto delle idee e delle riflessioni sia il primo meccanismo di costruzione del sapere e di un’opinione informata sulle cose. Che a loro volta sono ciò su cui si costruisce una società migliore: capire le cose, capire cosa è giusto, di volta in volta. Lo si ottiene solo studiando, accettando lezioni, prendendo ogni informazione come un insegnamento e un pezzo in più del proprio tesoro di conoscenze (anche quando lo si scarta o accantona). Questo ci attribuisce una doppia responsabilità, corrispondente al doppio dovere che abbiamo nella vita, a sua volta rivolto all’obiettivo del miglioramento del mondo. La rispiego all’indietro, scusate: il mondo si migliora migliorando noi stessi e gli altri e rendendoci disponibili a essere migliorati da noi stessi e dagli altri. La prima cosa si ottiene diffondendo e offrendo agli altri le cose che sappiamo e  che abbiamo capito, in particolare su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato e sugli strumenti per capirlo. Impartendo lezioni. La seconda cosa si ottiene simmetricamente accettando lezioni. È un circolo virtuoso, sempre più diffusamente interrotto dagli atteggiamenti di cui abbiamo detto. E che riguarda in modo uguale – anche il loro rapporto crea un circolo virtuoso o vizioso – la società e noialtri persone da una parte e la politica dall’altra. Dove oggi la demagogia è molto più diffusa della pedagogia (ah! Pedagogia! E che siamo, bambini? Non accetto lezioni!)

Secondo me ci sono due ostacoli maggiori alla ricostruzione di questo circolo virtuoso. Uno è quello piscologico di cui ho parlato: le accuse di snobismo, presunzione di superiorità morale, supponenza, distanza dal “paese reale” che bollano chi provi a migliorarlo, il paese reale, a cominciare da se stesso: come si permette? Chi si crede di essere? Ancora di più se non ha una posizione di potere riconosciuto che lo risparmi dalle suddette domande (siamo conformisti: in competizione con I nostri pari, e discreti con i nostri superiori). L’altro ostacolo è un’intolleranza linguistica. Una riprovazione sociale per alcune parole, che ci acceca sul loro reale significato e valore. Non sopportiamo “lezioni”. Non sopportiamo che qualcuno ci “insegni” delle cose. Nessuno si permetta di “educarci”, malgrado educare “significhi letteralmente condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto”. Se qualcuno mi educa vuol dire che sono maleducato, pensiamo. Se qualcuno mi insegna, vuol dire che sono ignorante. Se qualcuno mi spiega, vuol dire che non ho capito. Sono un imbecille. Uno strato spessissimo di insicurezza ci si è incollato intorno e ci fa reagire a ogni cosa col timore dell’effetto che farà sulla nostra immagine agli occhi degli altri. Siamo preoccupatissimi dell’effetto che facciamo, e troppo insicuri per farlo diventare uno stimolo piuttosto che una paura.

Per finire: tutto questo non si risolve analizzandolo. Analizzare serve a capire, e discutere serve a capire. E capire serve ad affrontare. In questo caso però capire e discutere sono limitati dallo stesso tema di cui parliamo: l’indisponibilità a capire e discutere. Come si impara ad accettare lezioni, come si accettano lezioni sull’accettare lezioni? Si lavora sulle parole, muovendosi ipocritamente in punta di piedi e usando una correttezza politico-linguistica che eviti termini sensatissimi ma potenzialmente offensivi alle nostre sensibilità? (come avrete notato, l’ho fatto pavidamente io stesso in diversi punti di questa esposizione, che alcuni troveranno quindi troppo cauta e gli altri troppo saccente). Si fa una grande autoanalisi collettiva?
Si rinuncia?

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49 commenti su “Lezioni

  1. Doriana

    Troppo lungo, mi spiace. Non sono andata oltre il terzo paragrafo, vista l’ora. Ci torno su domani. Fin lì tutto interessante. Direi che le lezioni non si ricevono soltanto, qualche volta è giusto anche darne (ma non nel senso deteriore tipo: “ora ti darò una lezione che non ti dimenticherai facilmente!”, quanto invece di quello che più si approssima all’esempio. Ecco, forse oggi sono proprio gli “esempi” ciò di cui più si sente la mancanza).

  2. Tommaso

    Io penso che sia un argomento molto ‘tecnico’, che prevede una risposta tecnica.

    Probabilmente lo psicologo può spiegare efficacemente il perchè di questi meccanismi.

    Personalmente da molti anni tengo sempre a mente questo eccellente motto:

    E’ impossibile imparare quello che pensiamo di sapere già – Plutarco

  3. luzmic

    La lucidità di quanto sto per scrivere potrebbe essere inficiata dall’ora, e forse domattina mi sembreranno stupidaggini.

    Ma a me pare che il problema dell’indisponibilità a farsi insegnare sia strettamente intrecciato al problema della difficoltà, o addirittura del rifiuto, ad ascoltare.

    Credo che il “non accetto lezioni” sia un mero atteggiamento da difesa della posizione, e che sia quindi proprio solo di chi ha una posizione da difendere. In tutti gli altri casi di lezioni ne accettiamo eccome e paghiamo anche parecchio (in danaro) per riceverle.

    Il problema del “non accetto lezioni” è che sottende all’idea che si possa essere lecitamente nella posizione di rifiutare l’ascolto dell’altro, all’idea che si possa lecitamente ritenere che ciò che l’altro ha da dire sia per principio privo di valore perchè l’altro è (o lo si vuole collocare) al di sotto di noi. L’ascolto dell’altro presupporrebbe l’accoglimento in noi delle sue idee. Non la condivisione, ma quanto meno la ricezione. Ed il discorso poi (bellissima parola, che porta in sè l’idea di un flusso di concetti che scorre alternativamente da un interlocutore all’altro, modificandosi ogni volta) comporterebbe addirittura la rielaborazione, la digestione dei pensieri altrui. Con l’ascolto e con il dialogo si è costretti ad imparare.

    Quindi in realtà il “non accetto lezioni” è un artificio retorico per rifiutare l’ascolto: ti imputo di volerti porre al di sopra di me come il maestro/adulto fa con l’allievo/bambino per poterti accusare di trattarmi come un bambino e per poter così chiudere i canali di comunicazione riaffermando la mia superiorità. La mia superiorità nel dettare le regole del dibattito, non la mia superiorità nella conoscenza della materia oggeto del discorso.

    La ferocia del “non accetto lezioni” sta allora nel fatto che in realtà significa non tanto “io sono così bravo e bello che nessuno ha nulla da insegnarmi” ma “non ti ascolto perchè ciò che dici non ha valore, ed esercito il mio potere di interrompere il dialogo”.

    Inoltre in genere il “non accetto lezioni” non riguarda la trasmissione di nozioni ma la messa in discussione delle nostre conclusioni o delle nostre decisioni. Quindi “non accetto lezioni” diventa anche un “non accetto di essere messo in discussione”, perchè io, di nuovo, sto al di sopra di te.

    La vera pericolosità del “non accetto lezioni” sta nel fatto che ascoltare, dialogare, è spesso molto più faticoso del non farlo, perchè appunto comporta uno sforzo di metabolizzazione che è tanto maggiore quanto più complesso è l’oggetto del discorso (o quanto minore è la capacità di chi lo pronuncia). Per non parlare dello sforzo di contro-argomentare. Se si afferma il principio che sia lecito “non accettare lezioni”, si offre a molti, anche a chi non si sognerebbe mai di porsi al di sopra di nessuno, uno splendido alibi, uno scacco matto facile facile per troncare ogni discussione quando non si ha voglia/capacità di continuarla.

    Il fatto è che però non è che abbassando il livello di dialogo verbale si smette di comunicare: si continua a farlo ma in modi più istintivi e meno consapevoli. Il che è forse bello e busolico per quanto riguarda la riscoperta dell’istinto, ma molto pericoloso per quanto riguarda l’incosapevolezza.

  4. Emilio

    “Lezione”, in un paese come il nostro, è una parola brutta. L’esperienza collettiva è fatta di un sistema scolastico zeppo di insegnanti incapaci di entrare nel merito delle nozioni che espongono. Gli insegnanti non accettano lezioni. Forse è meglio cambiare prospettiva, parlare di esempi prima che di lezioni: si migliora sé stessi con azioni e fatti, poi li si racconta in pensieri.
    I politici perdono e continuano a “reinventarsi” all’infinito, predicano qualità e onestà ma si rifiutano di prendere responsabilità per i loro fallimenti. Il problema è la disconnessione tra “lezione” ed “esempio”.E’ una cosa trasparente, parte del carattere nazionale, paragonabile al meccanismo della redenzione per cui basta confessarsi per lavare via i propri peccati. Il classico modo di fare che praticamente tutti considerano disprezzabile fino al secondo prima in cui si trovano ad usarlo. Gli elettori di sinistra, in particolari quelli più “intellettuali”, sono ormai abituati a razionalizzare questa realtà e fanno il gioco dei politici, invece di metterli alle strette. Chi non ha una particolare predisposizione verso una delle parti politiche vede queste cose per quello che sono: furbate. E non stupisce che a quel punto preferiscano il “più furbo”.
    Se qualcuno non ascolta più, bisogna cambiare approccio. Più esempi. Credo sia l’unico modo per dare significato alle lezioni, e per riacquistare la fiducia di chi ha smesso di ascoltare.

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  6. trentasei

    Grazie, intanto. Volevo finirla così, però poi, per quanto trovi spesso inutile parlare -come in fondo concludi anche tu, verso il finale-di aria e fumo attorno al sè, aggiungo la mia. Io penso che non si accettino lezioni nel momento in cui si è insicuri di sè. E, ancora, in modo diametralmente opposto, quando si è sicuri di sè. Nel primo caso, perchè è come dici tu: il tuo sapere evidenzia la mia ignoranza, che non accetto. Ma se so di sapere, la tua lezione sarà solo un apporto di cui ti sarò grato, e non una cancellazione del mio io da parte del tuo. E lo vivrò serenamente. E accetterò lezioni. Nel secondo caso, invece, è quando trovi ad insegnarti le cose qualcuno con la spocchia o la presunzione anche solo gerarchica del sapere, e non sa. E non accetti quella condizione. Uno che ti dice “cazza a collo quel fiocco”, quando si dice “cazzare a ferro” quello che intende lui, e sottointende invece tutt’altra manovra quello che intende lui, dice già molto di chi la afferma, con l’ aggravante dell’ utilizzo di una terminologia tecnica- perciò specifica e sottointendente conoscenza- e del comando. Difficile accettare lezioni da chi ti rendi conto saperne meno di te. Dovremmo accettare lezioni da chiunque ? Non credo. Bellissimo e meraviglioso,invece, incontrare qualcuno che ne sa talmente tanto che non solo te lo dice, ma ti mostra come si fa. E ti mostra che la barca, in quel modo, va. Ti indica le correzioni fini da apportare, alla vela. E lo ascolti per ore, con umiltà, perchè lo vedi, che ti insegna qualcosa. Lo vedi che, così, la barca va. Il comando lo prende con l’ autorità e il sapere, non per gerarchia. E in genere, mi è sempre capitato così nella vita, queste persone, quelle che sanno, hanno una calma e serenità come quella del mare la sera. E se sei tu, al comando, accettano anche i tuoi errori, perchè rispettano il ruolo. Penso che un buon comandante sia quello che riconosce che un membro dell’ equipaggio ne sa più di lui e lascia a quel punto che sia lui a condurre, proteggendolo dal frastuono degli altri. Ecco, ci sono pochi buoni comandanti. E tanti CT della nazionale, per capirsi.. S’ incazzano, anche, queste persone che sanno, ma si scusano. E se si erano incazzati era per un motivo valido. Non come quelli che magari, ad esempio, si incazzano perchè tu avevi cazzato il fiocco a collo, anzichè a ferro, senza rendersi conto nè sapere che è proprio quello che ti avevano chiesto. Hanno sbagliato loro, non tu, ma non se rendono conto, e s’ incazzano pure. Un po’ come certi dialoghi fra sordi in certi dibattiti televisivi, cui mi rifiuto oramai da tempo di assistere. Ecco, questo io penso. Che imparare da chi sa è un piacere vero. Il piacere di lasciare il comando a chi sa e abbandonarsi come un bambino a farsi mostrare le evoluzioni che questo maestro disegna nell’ aria con gli aquiloni. Che dover imparare, per circostanze e posizioni del momento, da chi non sa, è una frustrazione sincera dell’ io. Inoltre, chi sa, in genere ti tranquillizza sul tuo operato anche se sbagli, indicandoti la via. Chi non sa, ti indica quella sbagliata. E bisogna non imboccarla, in quel caso. E avere la spocchia di gridare un po’ più forte, se necessario. O scendere dalla barca.

    Sintetizzando, e brutalizzando verso il basso l’ esempio, hai mai notato quello che ho notatio io, invece ? Si reagisce con violenza a ciò che fa paura. Tipo, mettiamo che dovessi scoprire di essere gay, per me non sarebbe un problema. Dico: bon, va bè, son gay. Andiamo a caccia di uomini, a sto punto. ;-). Ecco, quelli che hanno terrore di essere gay, alla minima battuta sulla loro omosessualità, sottolineano e demarcano con forza la loro mascolinità, terrorizzati dal baratro di ciò che temono e non conoscono, in genere con elenco di misure e prestazioni. idem con l’ islamismo e altri tabù. Ecco, quando non accettiamo lezioni, abbiam paura di avercelo piccolo, io credo, e gridiamo più forte che il nostro affarino dà piacere, altro che il suo. Ma non ci crediamo tanto, secondo me, se dobbiamo gridarlo così forte. Anche se, farsi parlar sopra da un Calderoli ad esempio, ecco, bè, sì : chissenefrega, scenderei al suo livello e gli tapperei la bocca anche urlando cazzate al pari delle sue, perchè in certi casi non accetto lezioni palesemente inconsistenti per conoscenza, cultura e formazione. Per quanto, magari, tipo da Maroni potrei prendere lezioni di sax in tutta tranquillità, per dire. Quanta fuffa, uh ? Scusa se non rileggo, ma ora si va a lavorà, e quanti comandanti e cittì.. ciao.

  7. Zoe

    L’altro giorno ho letto un commento sul blog di Civati dove, pur nel contesto di una dichiarazione di stima, gli si rimproverava di essere troppo “intellettuale” (attribuendo indirettamente a questo intellettualismo il fallimento della mozione Marino) e gli si consigliava di cercare di essere più “alla mano” in futuro.
    Io credo che questa insofferenza e diffidenza verso chi si percepisce più “colto” noi, anche solo in un singolo settore del sapere e non necessariamente in generale, sia diffusissima e stia alla base del famoso livellamento “in basso” che la cultura di massa si porta appresso.
    Forse deriva da secoli di soggezione degli incolti nei confronti degli “acculturati”, dove il “non capire ciò che si dice” porta con sé un effettivo senso di smarrimento, evoca la sensazione di essere ingannati, piuttosto che suggerire un’occasione di meglioramento anche per sé stessi.
    Trovo che sia una questione interessantissima e centrale, sulla quale vale davvero la pena riflettere: grazie dello spunto.
    E grazie per avere aperto i commenti!

  8. valerio fiandra

    Questione ben posta, proprio perchè confusa nella espressione ma chiarissima nel tema offerto alla riflessione: anche LS, proprio quando è meno assertivo è più efficace, e anche altretanto utile del suo solito ( e a me gradito ) servizio informazioni.

    Quando mancano le risposte, Luca, ci hanno detto bisogna partire dalle analisi. Vero, ma di analisi si muore, compiaciuti per di più. E la ‘ capacità critica ‘ – che E’ dote necessaria, ma può rivelarsi letale – abbonda fra i perdenti. Quelli che, proprio perchè vedono che la realtà è diversa ( e sempre peggiore, per loro, hai notato ? ) da quel Modello Perfetto che hanno in testa ( ma solo in testa, eh, perchè poi molti si comportano come l’inconsapevole parodia di se stessi: tipo essere integralisti in accenti e virgole, ma dirsi invece custodi della democrazia e della condivisione, giusto per dare un esempio dei MENO importanti, ma ci siamo capiti ), proprio perchè la vedono peggiore, dicevo un migliaio di parole fa, hanno facilità a criticarla. Non si rendono conto che il loro gioco intellettuale, a volte condito di sagacia e giudizio, è comprensibile solo a loro stessi e ai pochi felici (felici ?), ma danneggia le menti e le lingue dei molti infelici ( infelici ?? ) che li leggono, imitano, approvano.

    Che fare, senza cadere nel benaltrismo o nei massimi sistemi, dunque?

    Prendersi la responsabilità individuale di esercitarsi continuamente a far bene il proprio mestiere, lavoro, professione. Interrogarsi spietatamente ogni volta che ci pare di NON far bene, ma poi trovare la quadra del momento e andar avanti a far bene.

    Chiedo scusa a te e agli altri se sono lungo, capirete che la faccenda è importante ma non si risolve a parole: l’atto più giusto e buono, in questi tempi, per coloro i quali hanno avuto la sorte di una buona educazione ( in senso lato ) e mezzi economici sufficenti, o talento e genio è quello di accettare la responsabilità di essere chiamati a funzioni di testimonianza e di leadership. Senza aspettarselo come effetto immediato, e per vie che Il Cigno Nero conosce, le Cose, cambiano. E chi le fa vive meglio, anche quando ha dubbi e momenti di apparente insicurezza.
    Aloha e grazie, Valerio

  9. sacha

    Alienazione culturale. Alla stregua di “non accetto lezioni…” ma anche “non sono a sua disposizione…” che mi sembra sia la next big thing.

  10. Frankie

    “Cambiare verso alla lezione”.

    Aggiungo che continuiamo a mantenere un attenggiamento passivo, cultura, conoscienza, istruzione si subiscono da adulti come si subivano da bambini le lezioni a scuola. Per pretendere noi che la scuola ci insegni, invertendo il verso della imposizione, occorre un grado di maturità che molte persone non raggiungono mai. Di conseguenza risulta difficile invertire il senso della lezione culturale o politica; pretendo da me stesso di capire e chiedo spiegazioni, accetto spiegazioni e lezioni.

  11. Pingback: Impararsi a at a vànvera

  12. suic

    ti ringrazio per queste verbose mediocrità che confermando la superiore finezza del mio pensiero mi permetteranno di bullarmi un altro po’ con gli amici sulla rete.

  13. luca

    “non si accettano lezioni” è naturalmente una scorciatoia, ma dipende dal contesto. anche lo “scambio di idee” è un mito che attraversa la nostra cultura pop. ma non è un contesto vero di scambio di idee nè la televisione (soprattutto quella “intelligente”) nè i blog ad esempio, cioè tutti quegli ambiti in cui si esibisce un’autorità in pillole, in 10 righe o in 3 minuti. sono contesti in cui tutti vorrebbero impartire lezioni, ma senza aver studiato, senza aver approfondito, senza davvero voler capire. la lezione è qualcosa di frontale, presuppone una disparità, nella sua stessa etimologia implica una lettura pubblica, dunque una fatica di un certo tipo specifico e che tocca entrambe le direzioni, verso chi la impartisce e verso chi l’accetta. questo piano è saltato, sostituito da un’idea di dialogo in cui ognuno “dice la sua”, allo stesso livello su tutto. il che per certi aspetti è positivo, ma per altri impedisce la crescita collettiva. insomma bisognerebbe accettare lezioni, ma non sempre, non da tutti, non in tutti i contesti.

  14. marco

    brevemente che il brodo è già tanto.
    riprendo la metafora di un commento precedente di 36.

    perché si stenta ad accettare “la lezione” dal comandante? secondo me perché si sa già che lui non mollerà la nave se diventassi migliore di lui.

    un passo avanti: perché lui non mollerà mai il comando della nave? secondo me perché per primo lui non ha l’umiltà, la capacità o il desiderio di riconoscere il sorpasso.

    ultima cosa: un cambiamento nelle modalità con cui i comandanti diventano comandanti (in tutti i campi, politicascuolasocietà) aumenterebbe il numero di noi mozzi disposti ad ascoltare queste lezioni.

  15. thomas

    Caro Sofri, posso dire che quando la lezione si fa complicata, si corre il rischio, come ogni professorone, di scambiare idee confuse e imbellettate qua e là da sillogismi categorici in forma normale, in cui le premesse sono basate su OPINIONI, dunque opinabili per definizone, soprattutto se riferite alla morale (dover essere come te caro il mio moralista di sinistra, potrebbe per alcuni essere un incubo); dicevo si corre il rischio di impressionare lo studente sprovveduto, che di fronte a tanto profluvio giunge alla siffatta verità: MINCHIA Signor Tenente! Ma che dire invece di quello meno impressionabile? Beh scoppierebbe magari in una grassa risata – igiene del mondo – la stessa (ironica neh) che sento risuonare or ora nel mio ufficietto. E che non inficia la stima, ma semmai semina il dubbio che alcune persone di sinistra ci credano davvero alle burlone lezioni del circolo “Lasciati dire come la devi pensare, perché ne so più di te, cara la mia educanda rozza e senza iphone”.

  16. Rob

    Ma forse si è già avviata una tendenza diversa. I blog sono stati, e forse sono tutt’ora, amplificatori d’ego, dove si impartiscono lezioni e non si accetta di riceverne. Altre esperienze, come quella di FriendFeed, per esempio, mi sembrano più orientate alla discussione, dove ci si interconnette di più, e lo spazio per il proprio ego si riduce a qualche battuta. Forse si dovrebbe ripensare alla propria presenza sul web, tasformandola da un’esperienza “espositiva” ad associativa.

  17. G.

    Secondo me il punto del problema è che ci siamo abituati a pensare lo spazio pubblico – ogni spazio pubblico, dal parlamento al talk show – come un luogo nel quale il “prendere posizione” si riferisce al collocarsi rispetto a un interlocutore, non rispetto a un argomento o (sarebbe chieder troppo) alla verità. E il “non accettar lezioni” è una strategia per situarsi rispetto all’interlocutore non meno di quanto lo sia l'”adesso ti do una lezione”. Si discute per imporre una collocazione a sé e all’altro, asimmetrica e a proprio vantaggio. Pensate a quanti dibattiti sfociano in un “devi vergognarti – no, devi vergognarti tu”. Anche il sapere viene usato come arma impropria per vincere una battaglia il cui terreno non è la verità ma, in senso lato, il potere.
    Pensiamo per esempio al successo di un noto ballista in gessato che ogni giovedì su RaiDue fa il suo “editorialino”. Questo successo si deve alla sua capacità di sfruttare al meglio le due cose di cui parla LS: l’abilità di situarsi rispetto all’interlocutore (sempre sarcasticamente, dunque con un occhio al pubblico: così facendo non si perde mai, dal momento che non si compete con l’altro ma ci si associa in ispirito a una torma immaginaria di linciatori), e la simulazione illusionistica di competenza derivante dallo sparare (spesso a casaccio) nomi e date, cosa che provoca in molti spettatori degli autentici orgasmi da “informazione in HD”.
    Il secondo aspetto, quello che riguarda il non accettare la superiorità altrui, e attribuirla fatalmente al senso di superiorità che l’altro coverebbe nei nostri confronti per umiliarci (specchio del nostro sguardo sull’altro: come dice Pannella, ogni accusa è autobiografica), solleva un problema forse perfino più ampio. In generale dovremmo fare, come disse qualcuno, “esercizi di ammirazione”. Ma secondo me tutta la questione ha a che fare con il lato oscuro dell’uguaglianza e del livellamento democratico: l’universalità dell’invidia. È una cosa che da sempre dicono i pensatori reazionari, da De Maistre in poi, e la provenienza di questa idea non dovrebbe accecarci circa il riconoscimento della verità che contiene. L’invidia è il lato in ombra della convivenza democratica, e se da un lato innesca meccanismi “virtuosi” (competizione et similia) dall’altro si deposita come uno strato di fiele, o di bile, su cui prosperano – nel caso dell’Italia – da un lato personaggi come Berlusconi (che, come Mike Bongiorno secondo lo schema di Eco, placa il senso di inferiorità dei suoi spettatori mostrandosi come “uno di voi”) e dall’altro i fanatici dell’anticasta e i qualunquisti dell’IdV, che vorrebbero sconfiggere con le manette il risentimento verso chi ha i soldi e l’auto blu. Così, tanto per ributtar tutto in politica!
    Infine, la nostra riluttanza a riconoscere che esistono opinioni o idee superiori, che esistono elite e gerarchie, è legata a un altro aspetto ancora: un certo relativismo dogmatico e assolutista per il quale se dico che la medicina occidentale è superiore alle cure sciamaniche sto peccando di lesa uguaglianza, o di lesa “orizzontalità”. L’episodio più ridicolo che io ricordi fu la reazione al documento “Dominus Iesus” (del Ratzinger pre-papato) che scandalizzò tutti perché vi si diceva che il Cristianesimo è la sola vera fede. Tutti ad accusarlo di arroganza, quando è ovvio che una religione che non ritenesse di esser “quella vera” non sarebbe nemmeno una religione. Si tratta di un caso estremo, ma proprio per questo tanto più rivelatore del nostro rifiuto di accettare che qualcuno possa ritenere che la propria idea, o fede, sia superiore alle altre. E – non nel caso della religione, chiaramente – che lo sia anche. Poi certo, tutto sta a non far crociate. Ma il riflesso condizionato del “le idee sono diverse, non giuste/sbagliate, più vere/più false” è costitutivo del nostro buon senso (cattivo).

  18. alvise

    mi permetto di aggiungere che tra gli ostacoli c’è anche la cultura della paura, che in questo ambito è giustificata in parte dalla presenza sempre più capillare di persone che “educano” o “impartiscono lezioni” in malafede per un tornaconto personale. “Non fidatevi di quelli che vi dicono che…”

  19. Raffaele

    Forse molto dipende dalla convinzione che gli altri non siano in possesso di tutte le informazioni necessarie a vedere il quadro complessivo. E se anche le avessero compierebbero scelte sbagliate, magari logiche, magari razionali, magari di buon senso, ma che porterebbero a risultati indesiderabili. Ognuno persegue un obiettivo inconfessabile che va contro quello che affermiamo di perseguire per convincere gli altri a darci appoggio. Un grande inganno del quale ci si auto-assolve con la scusa del “lo faccio per il tuo bene”.

    La famigerata massa senza valore di stampo nietzschiano non può comprendere le necessità della real-politik e viene trattata come semplice fonte di consenso. Più che un atteggiamento refrattario all’ascolto è piuttosto un atteggiamento paternalistico, dove l’autorità non può essere messa in discussione. Si nota anche nel momento in cui si cerca di separare il pubblico dal privato, facendosi scudo con la privacy, cercando di preservare intatta un’immagine emblematica, fondata sull’illusione mediatica, che non può subire attacchi di realtà. Questo è ormai l’unico modo di mantenere lo status quo in un mondo in cui le informazioni rilevanti sono accessibili: impedire alla massa di reputare importanti ragionamenti in grado di criticare i progetti del potere, fare in modo che la loro fiducia sia cieca, anche se questo implica la demolizione di qualsiasi opposizione con strumenti che permettano di evitare il confronto sui problemi reali, spesso con la complicità di media storicamente asserviti.

    Internet è la leva che potrebbe scardinare il sistema qualora si verificasse una sorta di risveglio delle masse, una presa di coscienza dell’inganno. Non so se l’evento porterebbe a miglioramenti oppure, au contraire, a peggioramenti: sarebbe comunque una sorta di strappo del velo. Da decenni gli scienziati parlano di ecosistema, gli economisti e i giuristi di squilibri, mancanza di omogeneità legislativa internazionale, globalizzazione selvaggia. La volontà politica di affrontare certe tematiche è assente o legata da calcoli di opportunità commerciali o convenienza diplomatica.

    Stiamo assistendo allo scontro fra masse e lobbies nella formazione della classe politica. Il potere politico è da sempre frutto di altri poteri, nonostante la democrazia. Lo spettro della democrazia diretta ha preso corpo con l’accesso semplice e veloce alle informazioni rilevanti, con la possibilità di scambio delle opinioni che rende possibile un immediato riscontro sulla diffusione e la confutabilità dell’opinione prevalente. Tutto questo potrebbe avere come sbocco la dittatura o l’anarchia, specialmente nell’ipotesi di masse in grado di esprimere e imporre preferenze irrazionali, ma l’idea che sia possibile continuare a fare politica come in passato appartiene solo, appunto, ai “vecchi” e noi in Italia ne abbiamo parecchi.

  20. steamerbag

    Non so se c’è qualcosa di nuovo in questo rifiuto ad accettare lezioni, di sicuro la comunicazione orizzontale permette a molti che non hanno gli strumenti intellettuali (mi ci metto anche io) di fare finta di averli, potendo usufruire perlomeno degli stessi strumenti tecnici dei professionisti del dibattito. Questo amplifica le voci di quelli che ‘ci tirano il cappello’ e che di conseguenza non possono permettersi uno scontro di idee troppo approfondito. E nonostante tutto credo che questa fase ‘corrida’ delle idee non possa che essere un bene, tanto poi le opinioni trovano una loro quota in base al peso specifico che hanno e alla fine, da tutto questo traffico di opinioni non licenziate, si possono anche ricevere delle piacevoli sorprese. Il senso di inferiorità intellettuale che la destra prova nei confronti degli intellettuali di sinistra fa il paio con l’inadeguatezza che i candidati del centrosinistra provano quando vogliono comunicare con il mondo delle imprese, in questo caso il senso di inferiorità (come direbbe lo psicanalista di Fantozzi) non è una sindrome psicologica ma una reale inferiorità che nasce dalla differenza dei ruoli sociali (aver affilato armi diverse per campi di battaglia diversi). Insomma: mi sembra normale veder saltare fuori il tema dell’antielitismo in tempi conservativi come questi, anche se sarebbe più logico il contrario, cioè che si discutesse di elitismo ed antielitismo in tempi di elìte autentiche. Non oggi, purtroppo.

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  22. luigi

    il discorso sulla crisi dell’umiltà, sulla incapacità di accettare lezioni, sulla intolleranza nei confronti della stessa espressione “lezione”, è certamente condivisibile. Non capisco però cosa questo centri con l’accusa contro la superiorità morale della sinistra, accusa che io ho sempre riferito al comportamento di alcuni esponenti politici della sinistra che, in buona sostanza, andavano dicendo:noi siamo meglio di tutti gli altri politici perchè noi non imbrogliamo, non corrompiamo, non rubiamo, non prendiamo i finanziamenti illeciti. L’accusa di snobbismo invece io l’ho sempre riferita a quelle persone di sinistra (elettori, intellettuali, giornalisti) che dicono in parole povere: chi non vota a sinistra (ma vota Dc,PSI,o PDL) è nella migliore delle ipotesi un po’ ignorantello, un poverino che si lascia abbindolare dai media e dalla Chiesa o ancora uno che non ha ideali, che non ha rispetto per la legalità.

  23. Luciano

    Quando ero ragazzo, una delle cose di mio padre, e di altri vecchi, che più mi faceva arrabbiare era il continuo richiamo all’esperienza, usato per tapparmi la bocca (Stai zitto tu che non hai esperienza!) oppure per impormi le sue decisioni (Dai retta a me che ho esperienza!).
    Ora ho parecchi anni e tanta esperienza anch’io. Che devo farmene? La uso un poco coi figli e i nipotini, evitando il più possibile di nominare la parola. Ma in giro l’esperienza vale poco, la parola non si usa più nemmeno. Le cose più belle e più sagge le ho imparate dopo i cinquant’anni: dunque troppo tardi per portarle in giro. Nel lavoro e nella politica pensata, dopo i cinquant’anni si è vecchi e a nessuno viene in mente di ascoltare le esperienze di un vecchio. Lo so per esperienza.
    Al primo anno di liceo ero rimasto affascinato dai discorsi attribuiti a Socrate, che cercava il dialogo con tutti per far venir fuori da ciascuno le cose che aveva dentro. Poi sono stato catturato dalla dialettica di Marx, la chiave d’oro per comprendere il mondo. Poi, negli anni, Freud e Jung, la musica, la poesia e sempre nuovi romanzi, che meglio della filosofia e della storia spiegano il mondo degli umani. Quante lezioni, quante parole lette e ascoltate. Quanti discorsi partecipati sul lavoro, intorno al tavolo in cucina, al collettivo o in piazza. Quanti sentimenti beati e dolorosi, quanti pensieri in solitudine, quante paure, dubbi, illusioni. L’esperienza è il distillato chiaro, leggibile di tutte queste e altre cose individuali e collettive. In giro non interessa a nessuno, ma per me è il senso della vita. Finirà con me. Come l’arte di fare i tortellini è finita con mia madre.

  24. Alessandro

    Prendendo spunto dal concetto di Luciano, mi viene in mente una frase di Satie: “l’esperienza è una forma di paralisi”.
    E sempre per citare, sembra quasi che tu abbia scritto questo post per tranquillizzare e convincere te stesso, mascherandoti con un plurale un po’ stridente: “Uno strato spessissimo di insicurezza ci si è incollato intorno e ci fa reagire a ogni cosa col timore dell’effetto che farà sulla nostra immagine agli occhi degli altri. Siamo preoccupatissimi dell’effetto che facciamo, e troppo insicuri per farlo diventare uno stimolo piuttosto che una paura”.
    Non ha senso attribuire a tutti questi tuoi timori. Caratterialmente io ho fame di dubbi e di persone che mi sappiano educare, indicare, dissolvere certezze; proprio perché l’esistere non dev’essere una forma di paralisi, ma di crescite.
    Se tu credi che tutto si risolva al limite dell’insicurezza personale, non credo che manterrai aperta a lungo la pagina dei commenti.
    Se, invece, vuoi aprire la casa dei tuoi pensieri a chiunque perché sei stanco dei quadri che hai sulla parete da troppo tempo, be’, è un passo in avanti molto interessante.
    In bocca al lupo,
    Alessandro

  25. Luca

    L’ultima valutazione è gentile, ma a dirla tutta interpreta la strategia dialettica al contrario: l’uso del plurale serve infatti a includere anche chi scrive nell’analisi che non sempre lo riguarda, per limitare gli effetti di supponenza. E siamo di nuovo al tema in questione.

  26. Daniele

    Non ho letto tutti i commenti e quindi magari il mio è già stato affrontato..
    Credo però che, al di là dell’interessantissimo spunto di riflessione, il tema vada affrontato su due piani diversi: uno è un piano diciamo tecnico, o da esperto. Il vicino di casa esperto di solai in legno non pone solitamente nessuna minaccia all’amor proprio delle persone, a meno che non abbiano uno spirito competitivo al di sopra della media. Lui ha dedicato tempo a studiare i solai in legno, io no, ho usato il mio tempo in altro modo, e sono quindi disposto ad ascoltare i suoi consigli (nei limiti ovviamente dell’educazione, se mi irride perchè non conosco la materia, vado a cercarmi un altro esperto). L’altro piano è invece quello del “pensiero generale” (non so come altro chiamarlo). Se io ho già riflettuto e ho una mia opinione sul testamento biologico è probabile che non sarò disposto ad “accettare lezioni” da nessuno a meno che non sia un membro di un comitato bioetico internazionale che pensa, si documenta e lavora sul tema da anni. Se invece parlo con qualcun’altro che ci ha pensato su come me (o, come spesso accade nella propria percezione, meno), allora sarò magari disposto ad ascoltarlo ma non a pormi nella condizione di dover imparare da lui o lei (che è un po’ quello che dice Luca a inizio articolo sulla presunta superiorità morale). Quindi, a mio avviso, il problema esiste solo quando non si è disposti ad ascoltare e a apprendere, anche con umiltà, da persone “esperte” su un argomento, che fanno quello nella vita, che per quanto io ci abbia riflettuto non sarò mai documentato quanto lui. Negli altri casi penso invece che non bisogna vergognarsi a credere di avere un pensiero valido almeno, se non di più, quanto quello del nostro interlocutore
    Ciao
    Daniele

  27. mingo mateo

    Avrei voluto soffermarmi su più cose, ma poi mi sono accorto che anche limitandomi a due ho scritto troppo:

    1. Obiezione al primo paragrafo.
    Personalmente non credo che la mia opinione sia migliore di altre perché “è la mia, ci ho riflettuto su un bel po’ed è la migliore a cui riesca a pensare”. Ritenerla migliore mi sembrerebbe già un ostacolo alla possibilità di cambiarla. Soprattutto dubito che un’opinione sia una cosa costruita a tavolino in un’pomeriggio (o un mese) trascorso a documentarsi su un tema. Secondo me un’opinione è un punto di vista che, mano a mano che si amplia la propria conoscenza su quel tema, emerge spontaneamente.

    Per questo motivo (il suo nascere in modo spontaneo) l’opinione non è un punto di vista privilegiato, ma al contrario è fortemente condizionata da fattori indipendenti dall’oggetto dell’opinione stessa: chi sono io (e come mi rappresento), che formazione ho avuto, a quali gruppi sociali appartengo (o ritengo di appartenere), qual è il mio stato di salute, quanto ci tengo a mostrarmi coerente rispetto ad opinioni espresse in passato, ecc.

    Ci affezioniamo tanto alle opinioni perché le sentiamo nostre, figlie di ciò che noi siamo, ma dovremmo sforzarci di mancar loro di rispetto, tanto sono lontane (spesso) da ciò a cui sono riferite.

    2. Obiezione alle “lezioni”.
    La possibilità di mutare il proprio parere non è limitato all’accettazione di un argomento di autorità, che è quello a cui un insegnante fa spesso ricorso in una lezione.
    Anzi, direi che fuori dal contesto scolastico/accademico, l’argomento d’autorità è molto poco efficace per far sì che una tesi venga presa in considerazione (non dico “accettata”, quello non accade quasi mai). E che poche cose sono vane quanto la formulazione assertiva di un’opinione.

    A me sembra che siano molto più costruttivi il dialogo, la discussione ed il confronto. E’una modalità che permette di accogliere opinioni diverse, di vagliarle, di vedere cos’hanno di buono e di rimanere infine ciascuno della propria idea (sì, perché credere di far cambiare parere agli altri è sciocco) e soprattutto ci permette di mettere alla prova le nostre teorie e verificare se siamo d’accordo con noi stessi. Per questa via qualcuno forse metterà in discussione le proprie certezze, ma è infantile aspettarsi che lo riconosca: il dialogo ha le sue regole, anche psicologiche, ed un suo galateo.

    In tal senso internet dà un contributo positivo. Usenet (ed ora friendfeed), o i commenti dei blog, sono buone palestre se uno sa scansare troll, fuffa e flamer, e dare loro il peso che meritano.

  28. Alessandro

    Non vorrei perpetuare un botta e risposta (specie adesso che sotto l’ufficio stanno passando delle allegoriche pecore… in pieno centro di Roma), però ci son pensieri e posizioni che alla fine “devono” essere deterministici (uso le virgolette per enfatizzare).
    Sul laicismo, per dirne una, non è che uno possa inventarsi delle vie diverse da un sistema il più aperto possibile. E qui di “lezioni” bisogna darle, altroché.
    È che il vero problema riguarda il concetto di libertà, se ho ben capito bene il risvolto implicito del tuo pensiero (libertà anche di comprendere e di essere compresi; di giudicare e di essere giudicati; di pensare e di essere confutati… eppoi, quindi, di metodo e di approccio, di proposizioni e di posizioni).
    Dov’è la libertà? Come inizia la mia libertà? Dove finisce?
    Senza scomodare Kant, ma il rapporto con essa (e quindi con i nostri simili) è alla base di ogni confronto.
    Insomma, Luca, hai creato un casino. Perché adesso se il commentarti diventa anche confronto psicologico e filosofico, tanto vale aprire un Wittgenstein a parte, e buona notte.
    Oppure ci si incontra a metà strada – tipo Massa-e-Carrara :-) – e si passa l’intera giornata a parlarne.
    Saluti,
    Alessandro

  29. Hytok

    I commenti come il primo di marco sono talmente sciocchi che andrebbero cancellati. Detto questo, un invito a Luca: apri sempre i commenti, rendi questo un vero blog.

  30. riccardo r

    La sensazione è di vivere in un ambiente altamente competitivo, dove ogni minimo spazio (reale o simbolico) lasciato all’avversario è una sconfitta e viceversa. In questo contesto la retorica è un’arma come lo è il parcheggio sotto casa. Accettare lezioni da competitori significa essere vulnerabili, perdenti, sconfitti.
    Se il vicino esperto di solai mi sta antipatico, il mio solaio lo faccio fare ad uno simpatico e meno esperto; ad un “alleato” e non un “nemico”.
    Come venirne fuori? A livello personale accettare la sconfitta, il tirarsi fuori dalla lotta, cambiare obiettivo, scegliersi nuove regole.
    Anche se questo a livello sociale porta a meno visibilità.
    E mettere a disposizione le proprie conoscenze, accettare che gli altri acquisiscano le tue conoscenze.

    Tutto questo però è un percorso privato e personale, difficilmente insegnabile. L’unica via d’uscita forse è proprio l’esempio come offerta di possibilità.

  31. Angelo

    Luca,
    io vorrei fare delle altre considerazioni ma che girano intorno allo stesso punto: in questo paese non si impara perché il livello del dibattito è bassissimo e lo è per le ragioni che dici tu. Se si prova a guardare una qualsiasi trasmissione televisiva che dovrebbe fare informazione la maggiorparte delle volte i partecipanti si urlano addosso impedendo sia a loro stessi che a chi ascolta di capire alcunché. Non solo, quelle poche volte che non urlano la percezione che si ha è che nella questione che dibattono le cose siano o bianche o nere quando invece ognuno di noi sa che la realtà è molto più complessa. L’estremizzare le proprie opinioni ha come riflesso che il dibattito sia del tutto superficiale contribuendo ancora di più a non insegnare niente a nessuno. In pratica il dibattito “culturale” in Italia è diventato un gigantesco dibattito da Bar Sport che come noto diverte gli astanti a volte ma non porta da nessuna parte. Cosa si possa fare è difficile da dire. Io credo che le proprie opinioni vadano espresse ma in maniera articolata e senza urlare e forse a quel punto anche l’interlocutore farà la stessa cosa. Certo aiuterebbe se la classe dirigente italiana desse il buon esempio e magari anche i giornalisti (perché non tolgono la parola a chi urla? se fossero i propri figli li rimproverebbero). Queste cose già accadono per esempio alla radio dove anche le persone più focose dibattono civilmente. Quindi vuol dire che si può fare (e non vorrei adesso scatenare un dibattito sul fatto che magari è la presenza in televisione a determinare il tutto anche perché lo stesso tipo di comportamento lo abbiamo nei dibattiti privati)se se ne ha la volontà. E quindi la domanda è: l’abbiamo questa volontà? E se ce l’abbiamo perché la maggiorparte delle volte non viene fuori? e se non l’abbiamo come mai? Ragionare su questo dovrebbe anche aiutarci a capire come venirne fuori però se vuoi la mia opinione questi ragionamenti non li vedo affatto in chi avrebbe poi anche la forza di “educare” il paese.

  32. Alessio

    Siamo istigati a perdere la nostra umiltà e a scavalcarci già dai primi passi nel mondo della scuola. Non stupisce che poi la classe dirigente sia sempre meno predisposta ad accettare lezioni. Ed anche su questo bisogna fare una precisazione: bisogna sempre tener presente che la maggior parte delle lezioni non sono inserite in discussioni pacifiche e volte al confronto, ma proprio a dimostrare superiorità.
    Sono banalità, ma le banalità quali – il nostro paese è quello del lei non sa chi sono io – io mi sono fatto da solo – io queste cose le ho viste in prima persona – io so come funziona questo mondo – fanno parte del nostro vivere quotidiano. E’ colpa di tutti, prime fra tutte le famiglie che educano alla competizione, al benessere personale prima di tutto. Ed è anche colpa di chi poi dice – io non riesco a comportarmi così, però come dargli torto -. E’ colpa anche di chi dice che uno dei peggiori, se non il peggior premier negli ultimi 150 anni, non viene sconfitto perchè all’opposizione non c’è una personalità forte, volgarmente – con le palle – e con quella che a Napoli chiamiamo Cazzimma.
    Ecco, io della furbizia, delle personalità forti e dotati di Cazzimma ne ho piene le scatole.
    Voglio a rappresentarmi una persone umile ed onesta.

  33. demonio pellegrino

    Strano, ne parlavamo con mia moglie proprio l’altra sera, di questa incapacita’ ad aprirsi e riconoscere i meriti dell’altro anche quando sono palesi, e anche quando potremmo uscirne avvantaggiati e con piu’ conoscenze.

    Non credo che tu ti riferisca solo alla politica, per cui faccio un discorso piu’ ampio: e’ il problema del 6 politico.

    Mi spiego: ormai in Italia, e in parecchi paesi europei, l’eccellenza non solo non viene piu’ apprezzata, ma non viene neanche piu’ insegnata come modello al quale aspirare. I modelli che si offrono sono tutti da 6 politico: tutti devono andare benino, a tutti si da’ quel poco di cui hanno strettamente bisogno, ma se tu eccelli, sei un problema, perche’ umili gli altri e crei un cortocircuito nel sistema stesso.

    Se tu insegni a tutti che il 6 politico va benissimo, hai di conseguenza persone che non accettano lezioni. Non ce n’e’ bisogno: il sei ce l’hanno gia’.

    Questo porta poi le persone che potrebbero dare lezioni (in senso buono) ad assumere anche un atteggiamento arrogante e saccente: “io non ti spiego nulla, perche’ tanto sei una capra e queste cose non le vuoi/puoi capire”. E questo, di riflesso, genera ancora piu’ astio nei confronti della conoscenza.

  34. Sergio

    C’è una gran voglia di darne (lezioni) e poca di riceverne, in giro. La dialettica delle opinioni ormai viaggia sull’asse amico-nemico. La pensi pressappoco come me, quindi sei mio amico, accetto di ascoltarti e quindi anche lezioni (anche se la parola magari non è quella giusta). Non lo sei? Beh, ti dò sulla voce e come ti permetti di darmi lezioni? Capita ormai parlando non solo di politica ma anche di formaggi olandesi o di lumache bulgare.
    O di qua o di là: la cultura (passami la parola odiosa) dominante è questa, da Arcore in giù. Altrimenti è inciucio. Perchè mai questo lo si debba applicare a tutte le categorie della vita è un profondo mistero.
    Uscire da questo impiccio sarebbe salutare, per il tema che hai posto. Magari non basta, ma aiuta.

  35. Zagabart

    Secondo me, a margine e a causa degli atteggiamenti descritti dal bel ragionamento di LS, ci sono i danni che ha prodotto la “democrazia partecipativa”.
    Provo a spiegarmi meglio con una provocazione, scusandomi per la praticità delle argomentazioni, chè non ho una formazione tale da ragionare filosofeggiando.

    Siamo così sicuri che una politica energetica basata sul nucleare sia il male assoluto?
    Chi di noi è in grado di asserire con cognizione di causa che i danni prodotti da scorie radioattive che non decadono per secoli siano maggiori di quelli causati dalle emissioni di megacentrali a gas, o peggio a carbone?

    Siamo così sicuri che un bambino adottato da una coppia omosessuale, anche se amato, coccolato ed educato nelle migliori condizioni, possa avere uno sviluppo equilibrato al pari di un bambino adottato da una cooppia etero?

    Siamo sicuri che le varie associazioni ambientaliste difendano il territorio con opposizioni e strumenti che costituiscono il miglior approccio possibile alla materia, considerandone tutti gli aspetti?

    In casi come questi (ed ho riportato non casualmente argomentazioni oggetto di dibattito e di grandi fratture tra destra e sinistra), allo stato delle cose le persone che decidono, legiferano su argomenti così importanti e strategici per lo sviluppo di un paese subiscono condizionamenti da parte della gente comune, di gruppi più o meno organizzati, che si sentono in grado di esprimere giudizi granitici che magari poi diventeranno legge, ma saranno inquinati e dirottati dal pensiero di chi, mediamente, non ne capisce una cippa o non ha gli strumenti per giudicare.

    Credo che sarebbe meglio per tutti che -da parte di tutti- ci fosse un po più di umiltà rispetto a obiezioni fattuali che vanno in senso contrario a quello che riteniamo sia il pensiero “vincente”.

    Sia chiaro, io ho una mia idea sulle “provocazioni”, ma sono dispostissimo a cambiarla qualora qualcuno mi dimostrasse, argomentazioni incontrovertibili alla mano, che mi sono sbagliato.
    Non mi sono spiegato bene, lo so, ma ci siamo capiti, vero?

  36. Stefano

    Luca, in buona parte e’ vero, certo, e la non disponibilita’ ad accettare lezioni viene dall’insicurezza e dalla paura di dimostrarsi inferiori.
    A volte invece viene da una lucida analisi. Nei contesti che premiano la capacita’ di imporre la persona rispetto all’argomento, o l’attrattivita’ dell’argomentazione rispetto alla sua solidita’, dire “non accetto lezioni” e’ un meccanismo comprensibile per chi si vuole sottrarre a quel contesto, ed e’ anche piu’ diplomatico di quel “ma andatevene tutti affan…” che verrebbe spontaneo.

    Capisco che al contrario chi ha un’argomentazione solida dovrebbe esporla e renderla attraente, ma se il sistema di relazioni segue regole diverse (e penso alla tv, e non solo), la risposta piu’ naturale e’ andarsene.

    Solo che cosi’ poi si rinuncia a cercare di cambiarlo, quel contesto.

  37. Riccardo

    “E spocchia, presunzione eccetera sono discutibili e antipatiche, ma non influiscono sul valore delle cose che uno dice. Sono due piani diversi.”

    …niente affatto. Spesso e volentieri sono in un evidente rapporto causale. Un esempio? Una delle frasi piu’ cretine lette negli ultimi tempi (non credo sia necessario aggiungere dove):

    “Per parlare di sinistra bisogna farsi delle domande sul senso della vita”

    Un esempio magnificamente vuoto della convinzione autocompiaciuta di una “superiorita morale” senza capo né coda, senza ragioni, né razionalitá, né tantomeno un briciolo di quell’umiltá intellettuale della quale si discorre qui sopra.
    La leggevo l’altro giorno e mi chiedevo, ingenuamente: “possibile che quest’uomo sinceramente consideri valida un’idiozia talmente palese? Che consideri un tratto distintivo dell’essere di sinistra la riflessione sul senso della vita? Chissá davvero non abbia mai avuto la fortuna di imbattersi in un Junger o un Finkielkraut o almeno in un Cormac McCharty…”.

    Me lo chiedevo ingenuamente e mi crucciavo di non poter dissentire in alcun modo. Prondo al volo quest’occasione, intrufolandomi in una discussione meno “politica”.

    Grazie comunque per la compagnia del tuo blog in queste brevi ma straordinariamente noiose serate tropicali.

    Buona serata

  38. Stefano

    @Riccardo

    Per chiarire, almeno negli ultimi 30 anni la “superiorità morale della sinistra” non si riferisce tanto ad un profilo culturale o intellettuale, quanto appunto a quello morale o etico (in senso etimologico), cioè nei comportamenti.

    I politici di sinistra si considerano generalmente più onesti e con maggior senso civico di quelli di destra. E’ chiaramente un’opinione, nel caso suffragata dalla minore incidenza di condanne penali fra i rappresentanti di sinistra rispetto a quelli di destra.

    Idem per gli elettori di sinistra, che giustificano l’argomentazione con vari esempi, fra cui il fatto che le categorie a maggior tasso di evasione fiscale tendono a votare a destra. (Poi quel dato ognuno lo legge come vuole)

    A volte poi si passa alla superiorità culturale, a partire dal fatto che la sinistra tradizionalmente è più forte nei ceti più istruiti, ma poi si finisce a parlare di nuovo di elitismo e dintorni.

    Tutto qui.

  39. Luca

    Riccardo, hai fatto una confusione logica piuttosto vistosa. Il sillogismo da te sostenuto per cui se per parlare di sinistra bisogna farsi domande eccetera allora solo chi è di sinistra può parlare del senso eccetera è così privo di senso, che se ci pensi te ne accorgi da solo. L.

  40. Riccardo

    Se quella frase e’ inserita nel contesto politico e nella dialettica buoni/cattivi, quella frase vuol dire che i buoni sono cosí e i cattivi no. Altrimenti é ancora peggio di quanto pensassi e semplicemente si trattava di un non senso.
    Ad ogni modo, lungi da me intepretare l’altrui pensiero: se non e’ quello che intendevi, meglio.

  41. francesco m.

    La frase “non accetto lezioni” ha una valenza soprattutto morale. Nessuno le accetta perchè, a differenza della cultura (dove sono di più le persone disposte ad ammettere l’ evidenza che un altro, ad esempio, sappia più cose sui buchi neri; non è una grande umiliazione!) manca un’autorità morale che si sia guadagnata il rispetto generale. Certo: coloro che sono ignoranti non sentono la necessità di colmare le proprie lacune (per molti l’ingoranza è quasi un vanto: quando non si capisce qualcosa la si disprezza, come faceva Croce con la scienza o Adorno con il jazz). Ma questa è una questione di scarsa modestia e di mancanza di riconoscimento dei propri limiti (e della consapevolezza che nessuno nasce imparato e che finchè c’è qualcosa da imparare val la pena vivere). Diversa è la questione della lezione morale. Il filosofo polacco Leszek Kolakowski, di recente scomparso a Oxford, sosteneva pragmaticamente che ciascuno dovrebbe ormai scegliersi alcuni valori e su di essi orientare coerentemente la propria vita. La chiave di tutto è la coerenza. Oggi si vive in un’epoca di incoerenza diffusa. E’ intollerabile allora scoprire, ad esempio, che un religioso che condanna un certo tipo di comportamento sessuale, sia un assatanato; o che un politico che promulga leggi contro la corruzione sia un corrotto. Ognuno di noi ha il diritto di essere debole e incoerente, ma a patto che non faccia la morale agli altri. La “superiorità morale della sinistra” è venuta meno quando si è scoperto che predicava bene e razzolava male. Perchè qualcuno sia disposto ad accettare le nostre lezioni bisogna che abbia prima sperimentato la nostra buona fede e coerenza.

  42. mingo mateo

    Io ho l’impressione ci sia un malinteso latente. Malinteso che forse è solo mio, eh.

    Tu, Luca, ti ritieni parte di una élite intellettuale?
    Mi sembra che questa sia una convinzione implicita in molte cose che scrivi sull’elitismo, sull’antielitismo, sul “fare le cose bene”, sull’essere un modello per gli altri. Appena dieci giorni hai spacciato sottobanco, a te stesso, un patentino di “uomo di cultura” (citazione di Bobbio a giustificazione dell’astensione alle primarie).

    Non lo hai mai dichiarato apertamente, ma ci giri attorno con tanta insistenza che io penso che tu abbia questa presunzione. Se mi sbagliassi, vorrei essere smentito.

    Non tanto per una questione di irritazione verso quella che può sembrare spocchia, o snobismo. Figurati: mica mi irrito con chi si crede Napoleone.
    Si tratta piuttosto del fatto che se sei capace di prendere un simile abbaglio, ne vengono squalificate un po’tutte le tue opinioni.

  43. Doparie Dopoleprimarie

    “Inciso: io credo che il 70% delle cose di cui si discute sia fuorviato da equivoci di significato, in buona o cattiva fede.”:

    Ecco, credo che questa frase iniziale del post spieghi moltissimo (succede, tra persone, soprattutto in buona fede). anche perché ci sono sempre meno occasioni di incontrarsi e tante di più di relazionarsi via internet o telefono

  44. Giovanni Fontana

    Io penso tre cose, a margine di questo post esemplare: la prima è che, secondo me, questa cosa delle “non accetto lezioni”, del “non mi giudicare”, e del “non ti voglio convincere delle mie ragioni” ci siano sempre state. Ce ne accorgiamo, ora, perché viviamo qui e in questo momento dando per scontato che sia un peggioramento, rispetto alla società di qualche, o tanto, tempo fa. Cioè, ci vien da pensare che a Newton non dicessero «ma chi t credi di essere?», ma magari sì.

    La seconda, ed è la mia risposta alla domanda finale, è che dovremmo cercare di limitare le cautele al minimo. Perché le cose cambiano, spesso, perché c’è qualcuno che fa la cosa giusta e non perché qualcuno fa un compromesso fra il fare la cosa giusta e la sensibilità della società. Questo non vuoldire non “accettare” compromessi, non c’entra nulla: ogni piccolo passo avanti è un viatico per il passo successivo.
    Anche perché, purtroppo, molta di questa corsa si fa sulle generazioni successive, su quale società, e in quali tic linguistici crescono le generazioni a venire, e allora avere tante persone che dicono nettamente “certo che ti voglio convincere della mia idea, e tu – per favore – fai lo stesso” può aiutare più che averne tante che dicono una cosa più edulcorata, magari irritando meno chi c’è già, ma che comunque – da meno scocciato – non cambierà opinione: per molti versi chi c’è già, noi compresi, è già perduto – è così difficile cambiare idea.
    E quindi, per esempio, il mio vigliacco “secondo me” – scontato, e secondo chi sennò? – di cui accorgo solo ora, non avrei dovuto metterlo.

  45. Emanuele

    L’uomo di destra pensa semplicemente di aver ragione.
    L’uomo di sinistra pensa semplicemente che l’uomo di destra abbia torto.
    La superiorità morale della sinistra e tutta qui.

    O viceversa.

  46. Elle

    Anche nella mia esperienza questo tipo di comportamento è quasi sempre legato a forti insicurezze. Lavoro all’università, e quando tornai in Europa continentale dopo diversi anni in Gran Bretagna mi resi subito conto che l’understatement non avrebbe funzionato. Nell’ambiente accademico britannico, mentre esistono sottili codici per autopromuoversi ed esprimere giudizi sui colleghi (codici che un non autoctono scopre di solito dopo anni di permanenza), è considerato di pessimo gusto millantare competenze che non si hanno, e si tende anzi a sminuirsi, più o meno sinceramente. Qui da noi invece, se io dico di non essere molto brava in qualcosa, o di non saperne fare un’altra (semplicemente perché non credo che una persona seria e coscienziosa, dotata di un minimo di disciplina intellettuale, possa pretendere di saper fare tutto perfettamente), questo viene considerato come una debolezza estrema, dato che altri, sebbene in possesso di competenze simili alle mie, direbbero di padroneggiare perfettamente la materia. Questo atteggiamento mi sembra la versione accademica del “non accetto lezioni”, ed è impossibile pensare che non abbia ripercussioni sulle giovani persone che formiamo. Detto tutto ciò, non sono sicura che le cose siano peggiorate. Come dicevo più su, a me sembra una questione di codici: in altri posti, o in altri tempi, c’erano e ci sono altri modi per esprimere disprezzo, o per ignorare la persona che cerca di comunicare con noi.

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