The dark side of the room

Oggi per mostra e dimostra vorrei parlarvi dei controcampi. Che poi non so nemmeno se tecnicamente si chiamino così, e ci vorrebbe un regista a dare una spiegazione competente. Ma parliamone da spettatori: dico di quelle sequenze nelle interviste televisive registrate in cui è inquadrato l’intervistatore, sia mentre sta facendo la domanda sia mentre ascolta l’intervistato, magari annuendo o facendo facce assorte. Quelle sequenze lì solo raramente sono riprese in diretta e spontanee: per farlo c’è bisogno di due telecamere, che quando si va in giro a fare interviste è un onere economico e pratico in più. Quindi nella maggior parte dei casi si fa così: si inquadra l’intervistato e lo si registra e quando si è finito si girano delle altre immagini dell’intervistatore che rifà le domande o fa le facce assorte, e poi si monta tutto assieme. Il rischio è che l’artificio si percepisca, che le domande recitate abbiano un tono poco realistico o che le facce assorte vengano particolarmente finte. A volte però non si può farne a meno, perché senza le domande non si capirebbero le risposte e la ripresa fissa sull’intervistato muto che le ascolta è un po’ noiosa. La tentazione da cui, parlando da spettatore, bisognerebbe guardarsi, è l’abuso dei controcampi a fine di manifestazione di sé: ci sono intervistatori che – alla stregua dei passanti che si affacciano dietro ai giornalisti del tg per strada – pensano che il lavoro fatto meriti una loro insistente apparizione in video, con la faccia assorta. Invece il lavoro fatto ne risente, se possiamo dare un consiglio, noi spettatori.

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7 commenti su “The dark side of the room

  1. minimAL

    @braccale
    vero, perché in genere la prima è una digitale portatile di proprietà del giornalista o del regista (a seconda dell’intervistatore)
    c’era un film in cui William Hurt veniva sgamato dalla sua potenziale amante proprio perché sembrava si fosse commosso in diretta durante un’intervista particolarmente toccante; e, invece, era andato lì con una sola telecamera e poi aveva simulato la commozione con un controcampo fasullo, buttando dentro lacrime di coccodrillo a comando
    film legnoso, ma ficcante
    domani noi della Rai scioperiamo: magari fatelo sapere al resto del mondo :-0
    ciao,
    Alessandro

  2. Jan Alexander

    Si chiama piano d’ascolto, e sì, si vede benissimo che è posticcio quando lo è. A volte vengono anche infilati dei totali girati prima dell’intervista mentre giornalista e intervistato chiacchierano e il labiale ovviamente non combacia.

  3. Ozkar

    In realtà serve anche per poter fare taglia-incolla della traccia audio dell’intervistato, quando si perde in chiacchiere o bofonchia cose incomprensibili, o parte da Adamo ed Eva, o si perde in “mmmm…ahhh…dunque…” e tu devi stare in 60 secondi. Naturalmente non puoi farlo anche con le immagini, e allora devi cambiare inquadratura (che è anche il motivo per cui nei servizi si vedono spesso le penne dei cronisti sui taccuini). Ma queste cose naturalmente le sai. Mi dirai, e sono d’accordo, che come stacchi si potrebbero anche utilizzare immagini di repertorio tipo Montecitorio o Palazzo Chigi, o lo stesso politico in altre situazioni, o immagini attinenti al soggetto dell’intervista (quando c’è un soggetto, o quando è comprensibile). Ma si perderebbe un po’ l’effetto di realtà.

  4. cubepark

    io li vedo spesso in un TG , soprattutto per dei servizi in cui si intervistano dei politici, non ho mai capito il valore aggiunto di quelle inquadrature…

  5. Pingback: links for 2010-12-11

  6. pieros

    C’è un cronista del TG3 Emilia Romagna che non ricorre ai controcampi ma non manca mai di mostrare la sua faccia: in genere conduce le interviste ponendosi a fianco dell’intervistato, entrambi seduti su un divano o mentre camminano, e aggrottando compuntamente le sopracciglia mentre l’altro risponde. Dimenticavo: si chiama Carlo Valentini, ogni tanto qualche suo servizio passa su qualche tg nazionale. Non perdetevelo.

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