Papaboys a Roma

Il problema con questo milione e passa di giovani calati su Roma perché li ha chiamati il papa, è che non si capisce chi siano (chi diavolo siano, viene da scrivere). Come se si potesse, dopo averli radunati geograficamente, radunare un milione di ragazzi in una sintesi buona per i nostri articoli di giornale e per la nostra pigrizia nei confronti di quello che non siamo. Come se si potesse.
Da ragazzi nelle buone scuole d’un tempo c’era un tipo antropologico che identificavamo con quello che va a Roma in pellegrinaggio. Alcuni compagni della scuola frequentavano assiduamente le comunità cattoliche: discretamente, ma qualcosa li tradiva, prima o poi. Non sempre avevano l’aria sfigata che il personaggio imponeva, a volte erano belli e sportivi, ma mai i più acuti e affascinanti. Un po’ noiosi, ecco. Questo essere un po’ noiosi, e di solito lo erano davvero, si manifestava però agli occhi dei comuni borghesi laici – che si ritenevano non migliori, ma normali  in due mancanze tipiche del giovane cattolico: quella estetica e quella di spirito. Non solo prendevano alcune questioni sul serio (dannatamente sul serio, viene da scrivere) e facevano cose poco allegre, scelte intollerabili per dei giovani, ma frequentavano cose inguardabili agli occhi vanitosi dei giovani. Parrocchie, croci, bibbie con copertine in plastica, non erano fatte per attrarre. Ma soprattutto, i sandali. I sandali, peggio se portati con i calzini, erano oggetto di scherno e motivo di presunta superiorità intellettuale nei confronti di due categorie umane: i tedeschi e i giovani cattolici.
Poi le cose sono cambiate, i sandali sono diventati di moda. Sono brutti come prima ma hanno vinto loro: i tedeschi e i giovani cattolici (sacrificando i calzini, con lungimiranza). Per distinguere i normali dai pellegrini romani non resterebbe che la convinzione dei normali di sapersi godere la vita, di saperla lunga e di essere più spiritosi. Convinzione fondata su un assoluto pregiudizio: non solo nessuno ha la minima idea del senso dell’umorismo dei ragazzi di Roma, ma nessuno può averla. Sono un milione di persone.
L’identificazione dello stereotipo-di-giovane-papa-boy è stato anche il maggiore sforzo compiuto dai giornali italiani sotto ferragosto. Sono stati pubblicati in tre giorni una decina di identikit, tipo come si veste, che musica sente e così via. Ognuno era diverso, a riprova che neppure gli identikit hanno un loro identikit. Molti esperti intervistati (neanche uno sotto i quaranta) hanno dato il loro ritratto dei giovani. Nelle interviste ai ragazzi, la tendenza è invece a mostrare che sono-fatti-come-noi. C’è del razzismo in tutto questo? Forse no, forse sì e innocuo.
Erri De Luca sul Corriere della Sera tratteggiava una diversità fatta di buone intenzioni, attenzione alle regole ed educazione. Questi sono ragazzi per bene. Faceva venire un po’ voglia di giovani tatuati, fatti di canne e caciaroni, ma aveva ragione. Si diceva sempre della Svizzera: che palle, un posto dove tutto è ordinato, efficiente, noioso. Poi uno andava in Svizzera, tutto funzionava, tutto era bello e pulito e si capiva che non era poi così male (adesso anche la Svizzera sta perdendo colpi). E quando sei stato i primi due giorni tra ragazzi gentili, aiutano le persone che ne hanno bisogno e puliscono in giro, capisci che questi sono bravi. Casomai ricordi il dubbio di Orson Welles, per cui la quiete e gli svizzeri non hanno mai partorito altro che gli orologi a cucù. La visione di San Pietro (inteso come basilica, non come apparizione mistica) tende a fugare ogni dubbio su questo rischio, almeno nel passato, ma è lo stesso sospetto di un tempo. Sono bravi ma meno brillanti? Balle, sono un milione di persone. E qualcosa combineranno: quelli di Comunione e Liberazione saranno pur partiti da questi sandali prima di fare le scarpe a tutti.
Di Roma si sono impadroniti con un’emozione commovente. Molti non ci possono credere di essere qui, molti non ci possono credere che Roma sia bella così, e misurano e godono ogni metro del loro cammino. Sembrano i ragazzi invitati a una festa in una villa straordinaria mentre i genitori sono fuori. I romani torneranno e non si accorgeranno di niente, forse neanche di stare in un posto così straordinario. Alcuni, coppiette, Romei e Giuliette, si fermano su una panchina e si tengono per mano: i loro compagni sono fermi un po’ più in là e si divertono come matti nei cori e i girotondi che ce li fanno sempre pensare un po’ scemi. Intanto loro si divertono. In questo si distinguono lampantemente dai loro coetanei arrivati in questi giorni a Roma per semplice turismo: sono ragazzi e ragazze assieme, senza essere fidanzati. Una colossale gita scolastica a Roma, che si concluderà col picnic più grande del mondo, sul prato di Tor Vergata. Che anche far diventare verdi verdi i 360 ettari più brulli e sterposi della periferia romana con qualcosa di simile a una fede terrena deve avere a che fare.
Uno, ieri, uguale a molti degli altri nell’aspetto, aveva scritto però sulla maglietta “Dio è morte, Mao Tze Tung”. Aveva l’aria piuttosto afflitta, doveva essere in giro da ore sotto il caldo e nessuno sembrava filarsi la sua baldanzosa provocazione. Una ragazza si lamentava coi suoi compagni della fatica nel sistemare gli egiziani, insofferenti della promiscuità nella scuola che li accoglie. Una diceva “minchia” ogni quattro parole. A Piazza del Popolo sostava una foltissima compagnia di ragazzini francesi, saranno stati duecento, guidati da un gruppo di giovani preti in tonaca, tutti belli, tutti alti, una nuvola nera di Gianni Berengo Gardin. Uno di loro aveva una fascetta sulla fronte, nera, con il simbolo della Nike. Magari alcuni dei ragazzini cresceranno e si scopriranno omosessuali e per la loro religione andrà benissimo, allora. “A cosa serve un confine? Ad essere superato”, dice il gigantesco cartellone pubblicitario della Tim appeso sopra le loro teste.

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