Lou Gehrig era nato il 19 giugno del 1903 a New York, cinquanta giorni dopo la nuova squadra di baseball cittadina, gli Highlanders. Heinrich e Christina Gehrig, erano arrivati dalla Germania a Manhattan, dove si erano conosciuti e sposati tre anni prima. Il bambino Henry Ludwig, Lou, crebbe nel quartiere di Yorkvile, nell’Upper East Side, insieme ai giovani fratelli Marx, al piccolo James Cagney, e alle famiglie degli immigrati tedeschi e ungheresi della fine dell’Ottocento. Sua madre lavorava come una matta sperando che il figlio potesse studiare e diventare un giorno ingegnere, come lo zio Otto. Suo padre si barcamenava tra lavori sconclusionati e un’inclinazione alla pigrizia.
Lou non era un fulmine a scuola, timido, impacciato, un tipo qualsiasi della sua età. Ma sua madre era certa che sarebbe diventato una persona istruita e suo padre decise di scioglierlo introducendolo a una palestra del Bronx, cosa non particolarmente comune tra i giovani del tempo. In poco tempo il suo fisico maturò e si rafforzò in modo impressionante. A diciassette anni era già un ragazzone più robusto di tutti i suoi coetanei. Cominciò a eccellere in ogni sport che praticava. E uno era il baseball. Quando venne invitato a partecipare a una partita di selezioni scolastiche a Chicago, sua madre si oppose, definendola una perdita di tempo. Ma alla fine Lou ebbe il permesso di fare i tre giorni di viaggio in treno.
Davanti a diecimila persone, all’ultimo inning, con la sua squadra avanti di due, Lou andò in battuta. Non ne aveva ancora azzeccata una. Ma al secondo lancio, con tre uomini in base, scaricò una sberla che superò l’esterno destro, e poi il muro del leggendario Wrigley Field, e atterrò in un giardino di Sheffield avenue. Nel baseball, un fuoricampo con tre giocatori che hanno occupato precedentemente tutte e tre le basi, è il colpo più grande e prezioso, quello che porta a casa quattro punti, il Grand Slam. E di fuoricampo in genere, in tutta la stagione precedente, lo stadio dei Chicago Cubs non ne aveva visti che diciotto, tutti per mano di atleti professionisti e maggiorenni.
Malgrado il botto, non partì in quarta la carriera di Lou Gehrig. Doveva fare l’ingegnere, come lo zio Otto. Ci vollero altri tre anni per superare le resistenze della mamma e le sue stesse impacciatezze, e accettare un contratto per giocare nell’appena costruito Yankee Stadium, casa della seconda squadra di New York (allora la prima erano i Giants), che aveva abbandonato il nome di Highlanders.
Lou Gehrig oggi sarebbe il più grande giocatore di baseball di tutti i tempi, e senz’altro il più grande Yankee di tutti i tempi. Non fosse stato per due ragioni, che si chiamarono Babe Ruth e Joe Di Maggio. Tutta la vita di Gehrig fu quella del numero due, sempre dietro allo straordinario gigione e campione dalla faccia rotonda per più di metà della sua carriera, e sfocata dall’avvento dell’agile ed elegante italiano negli anni finali. Gli Yankees di Ruth e Gehrig divennero la più grande squadra di baseball del mondo e nei quarant’anni dal 1923 in poi vinsero venti World Series, dominando la sfida con i Giants. I due fuoriclasse tedeschi li chiamavano Ruthandgehrig – sono ancora oggi la più micidiale coppia di battitori che abbia mai fatto ingresso su un diamante, come si chiama il campo di baseball.
Gehrig era un giocatore completo, alla battuta faceva disperare i lanciatori che preferivano sbagliare apposta per non farlo battere, in prima base era una roccaforte, sapeva rubare le basi e pur non essendo velocissimo si muoveva sul campo da campione e si sacrificava come nessuno. Ma Ruth era più forte, sempre. Ed era il mito dei fans, il compagnone dei giornalisti, l’idolo dei bambini, il piacione dei tempi del proibizionismo, le feste e le donne e i locali di New York. Gehrig fu sempre modesto, riservato, insicuro, attaccato alla famiglia: viveva ancora con mamma e papà quando era diventato già “The Iron Horse” per i fans di tutta l’America. Non dispensava battute, non faceva shows, non andava alle feste. “Gehrig, quello che fece tutti quei fuoricampo l’anno che Ruth batté il record dei fuoricampo”, disse un giornalista una volta. Quando, primo nella storia, batté quattro fuoricampo in una partita, i titoli dei giornali del giorno dopo furono tutti per il ritiro di John McGraw, storico manager dei Giants. Eppure, da quando la prima base titolare Wally Pipp si fece male, nel 1925, al 1939 quando lasciò, Gehrig giocò tutte le 2130 partite di campionato degli Yankees, stabilendo un record rimasto leggendario anche dopo che Carl Ripken dei Baltimora Orioles l’ebbe infine battuto, nel 1995. Il secondo più forte giocatore del mondo dopo Ruth giocò sempre, in ogni condizione, con le dita fratturate e la schiena a pezzi, per tredici anni, umilmente, dedicato alla squadra e sempre subalterno a Babe Ruth, senza mostrarne alcun cruccio. Anzi di Babe Ruth, che lo precedeva anche nei turni di battuta, fu sempre fedele amico e ammiratore, fino al giorno in cui, da poco sposato (contro il volere della mamma) e in viaggio per nave, trovò la moglie Eleanor nella cabina del compagno di squadra dove si stava svolgendo una specie di festino. Da allora le voci su come sia andata si sono rincorse e contraddette, ma la cosa certa è che Gehrig non volle mai più parlare al suo ex maestro.
Ma quando nel 1935 la parabola Ruth si esaurì, e il numero uno se ne andò a concludere la carriera a Boston dopo aver invano sperato di diventare manager degli Yankees, Gehrig ebbe finalmente la chance di diventare il numero uno, benché fosse già un mito, The Iron Horse, con contratti pubblicitari e pure un ruolo da protagonista in Rawhide, a Hollywood (fisico prestante e faccia da attore non gli mancavano). Per la prima volta nella storia una squadra, gli Yankees, vinse quattro World Series di seguito, e i record stabiliti da Gehrig si accavallavano, ma intanto era arrivata la rivelazione del ’36, Joe Di Maggio, e i titoli erano tutti per lui. Nel turno di battuta, subito prima di Gehrig. La squadra era cambiata, affollata di italo-americani (come il sindaco tifoso Fiorello la Guardia), non era più la simpatica banda di spacconi di dieci anni prima, ma un gruppo fiero, professionale e corretto sotto la guida di Gehrig, mai una lite, mai una parola fuori posto, mai in pubblico senza giacca e cravatta.
E venne la stagione del ’39. Gehrig aveva trentasei anni, ormai, ma questo non spiegava a sufficienza un suo visibile calo nel campionato precedente, un bunt contro Boston (un bunt è una battuta debole appoggiata volontariamente vicino al piatto, mai usata dai battitori potenti e temibili), un’errore in prima base contro Chicago, nelle finali vinte dagli Yankees. C’è qualcosa che non va con Gehrig, cominciarono a pensare in molti, quando lo videro lento e impacciato nelle prime partite di campionato. E debole anche in battuta, l’ultima risorsa dei campioni in declino. I fans erano in ansia, i compagni lo aiutavano, lui era desolato e senza una spiegazione per la sua fragilità, in imbarazzo con la squadra e con i tifosi. Fino al 2 maggio 1939, quando lo speaker del Briggs Stadium di Detroit annunciò le formazioni. In prima base, Babe Dahlgren, un altro, per la prima volta in quattordici anni. Il pubblico ci rimase stecchito. Gehrig aveva chiesto di stare fuori: come capitano entrò in campo per consegnare l’ordine di battuta all’arbitro e improvvisamente dodicimila persone si alzarono in piedi sugli spalti e iniziarono ad applaudire. Una standing ovation di due minuti che sapeva o temeva di essere un saluto.
Lou Gehrig non giocò mai più una partita di campionato. Un mese dopo entrò in clinica dove gli fu diagnosticata una sclerosi laterale amiotrofica, una malattia scoperta in Francia nell’Ottocento che distrugge le cellule nervose dedicate alla stimolazione dei muscoli, facendoli atrofizzare poco a poco, e conduce alla morte nel giro di pochi anni. Una malattia che ebbe tra le sue vittime anche Mao Tse Tung e David Niven, ma che da allora è nota come il morbo di Gehrig.
The Iron Horse passò gli ultimi mesi della sua vita con un impiego assegnatogli dalla città di New York, come responsabile per la concessione della libertà sulla parola ai detenuti. Tornò in campo alla vigilia di una partita degli Yankees contro i Washington Senators, per una cerimonia di addio che inginocchiò dalla commozione mezzo paese e di cui è rimasto memorabile il suo discorso d’addio, celebrato nella storia degli Stati Uniti insieme a quello di Gettysburg di Abramo Lincoln, al sogno di Martin Luther King, alla battuta di Kennedy su “quello che potete fare per il vostro paese”. Con la testa bassa, dopo una lunga esitazione e ripetendo a braccio un appunto che teneva in tasca, Gehrig disse “Sapete ormai che per me è un brutto momento, ma voglio dirvi che oggi mi considero l’uomo più fortunato del mondo”. Non ho avuto che bene dalla vita, proseguì, sotto il sole di luglio davanti a sessantamila persone. Quando disse “Grazie” fu sepolto da un colossale applauso, dai flash, e persino dall’abbraccio di Babe Ruth.
Tutto poi sarebbe stato ripetuto da Gary Cooper nell’epico film sulla vita di Gehrig, L’idolo delle folle: quello in cui per rendere il protagonista mancino come il suo personaggio le scene vennero montate capovolte dopo avergli fatto indossare una divisa con nome e numero rovesciati e averlo fatto correre in terza base anziché in prima. Gehrig fu il primo atleta della storia di cui una squadra ritirò il numero di maglia, il quattro. Ancora oggi, detiene il maggior numero di Grand Slam della storia del baseball professionistico, 23, e una cesta di altri primati.
Lou Gehrig , il più grande prima base della storia del baseball, morì a 39 anni il 2 giugno 1941.