Un giorno di giornali in Israele

Quanto possiamo tirare la corda che ci lega agli americani?, si chiedono i giornali israeliani con minore o maggiore preoccupazione. “Vadano all’inferno!”, avrebbe addirittura detto Bush secondo Ma’ariv, il secondo quotidiano del paese, dopo che gli era stato riferito il numero di morti palestinesi di questi giorni. Ma il maggiore quotidiano nazionale, Yediot Ahronot, dà uguale risalto alla richiesta americana “Fuori dalla Palestina!” e alla risposta di Israele: “Non ancora”. E occupa metà della prima pagina con una foto della grande manifestazione della destra che si è tenuta ieri, con Arafat indicato come il capo degli assassini e accuse a Sharon di tenere una linea troppo morbida, le ultime accuse mosse dal ministro Zeevi prima di essere assassinato la settimana scorsa: “Lasciate fare all’esercito”, dicevano i cartelli.
E proprio dell’intervento dell’esercito nei territori palestinesi è preoccupato Ha’aretz, il quotidiano più liberal le cui opinioni sono seguite con grande attenzione dall’establishment intellettuale e politico israeliano: “la pressione internazionale nei confronti di Arafat che aveva seguito la morte di Zeevi è svanita di fronte alle immagini dei carri armati israeliani a Ramallah e Betlemme e ai numeri delle vittime palestinesi. Israele è tornato ad essere visto come “l’aggressore” in questo ciclo di violenze”. Un altro editoriale, firmato da Zvi Barel, rimprovera entrambe le parti di usare le condizioni richieste dal rapporto Mitchell solo per rimproverare l’avversario di non aderirvi e guadagnare millimetri inutili di credibilità. Secondo Barel perché le condizioni per una trattativa siano rispettate, non è solo Arafat a dover scongiurare gli attacchi contro i cittadini israeliani (Barel sostiene che il rapporto non pretende dall’Autorità Palestinese un loro azzeramento totale) ma anche Sharon dovrebbe impedire ogni nuovo insediamento di coloni in Palestina. E il rapporto Tenet chiede anche che ogni volta che un palestinese viene ucciso dai soldati di Israele, una commissione dell’esercito debba investigare l’accaduto. “È mai successo?”, chiede Barel. Ciò nonostante, conclude, i due rapporti non vincolano l’avvio delle trattative a un completo cessate il fuoco, e alle presenti condizioni un negoziato dovrebbe cominciare subito indipendentemente da questo.
Il Jerusalem Post, quotidiano in lingua inglese della capitale, riferisce di un allarmante rapporto dello Shin Bet presentato alla Knesset, secondo il quale non sarebbe possibile garantire che un altro ministro non venga ucciso dai terroristi. Ma è la tensione tra il partito di Peres e il Likud a tenere banco, assieme alle preoccupazioni americane. Secondo il presidente della commissione esteri della Knesset, il ministro sarebbe passato “da essere un onore internazionale a essere un onere”: David Magen accusa Peres di avere cancellato un incontro con la commissione per partire per gli Stati Uniti con dubbi obiettivi. Peres, dall’America, resta sulle sue posizioni, piuttosto personali di questi tempi: “Non combattiamo uno stato palestinese. Vogliamo che esista, e non vogliamo vedere la gente palestinese soffrire”. Sullo stesso giornale, un commento di Jonathan Rosenblum attacca la denuncia di un “pericolo fondamentalista ebraico” fatta durante un convegno a Cleveland da Uri Regev, direttore dell’Israel Religious Action Center. “Gli haredim sarebbero come i taliban”, ironizza Rosenblum.
Sulla posizione opposta a quella di Peres, in un intervento alla radio Arutz 7 l’ex presidente del Consiglio rabbinico d’America Grossman ha posto la questione dello stato palestinese in questi termini: “Uno stato sovrano palestinese avrebbe senz’altro bisogno di nuovi capitali per sopravvivere, soprattutto in considerazione delle scarse risorse di Gaza e West Bank. E probabilmente li raccoglierebbe sostituendosi allo sconfitto regime dei taliban nell’industria dell’eroina, continuando a inondare le strade europee e americane con la droga che, come il terrorismo, distrugge milioni di vite”.
Fuori dalla questione palestinese, il giovane quotidiano finanziario Globes apre con la privatizzazione di Bezeq, la società nazionale di telecomunicazioni, che secondo il ministro Rivlin procederà senza ripensamenti (le obiezioni dei partiti ultraortodossi preoccupati dell’arrivo di trasmissioni prono via cavo, erano state superate con una legge che vieta la trasmissione di film per adulti fino al 2200). E ancora Yediot Ahronot riferisce invece che dopo il successo del primo negozio IKEA aperto a Netanya lo scorso aprile, la compagnia svedese sta progettando la costruzione di nuovi centri commerciali in Israele.

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