Il più grande fan di Randy Newman che conosco è mio zio. Guida la sua Volvo per le strade di Oslo – mio zio è di Oslo – ascoltando le canzoni di “Bad Love”, il cd uscito due anni fa. Va matto per “The world isn’t fair”, la canzone in cui il narratore spiega a Karl Marx che certo, va bene, tu hai pensato un sacco di cose buone e belle per quelli che stavano male, ma il mondo è ingiusto, Karl, hanno provato a fare come dicevi tu e non ha funzionato, saresti contento di essere morto se dovessi sapere come è andata a finire. Dovresti venire a vedere le donne che abbiamo qui, Karl, nel paese della libertà, dove i ricchi diventano ricchi e i poveri non si vedono: il mondo è ingiusto.
Randy Newman somiglia a un fan di Randy Newman, hanno scritto, e infatti somiglia un po’ a mio zio. È grande e grosso, un po’ goffo e un po’ strabico. Avrà 57 anni tra qualche giorno ed uno dei più grandi cantautori americani: con Dylan, Paul Simon e Neil Young, il più longevo. Quelli che sono venuti dopo lo citano come maestro, da Elvis Costello a Elliott Smith. Ed è il protagonista del “Grande Mistero di Randy Newman”, secondo Greil Marcus, il critico che ha scritto un celebre libro sul rock americano, Mystery Train: “Perché questo genio non è famoso e conosciuto come dovrebbe?”.
Lui stesso dice di avere 40 mila fans appassionati, tipo mio zio, e poi sei miliardi che non lo hanno mai sentito nominare. E questa è esattamente la dimensione del suo successo. Tutti i critici più importanti mettono i dischi di Randy Newman tra i loro preferiti di tutti i tempi, ogni uscita è trattata come un capolavoro e i suoi testi analizzati con eccitazione. Ma non vende un accidente da 33 anni. O meglio, vende come una delle mille popstar di media grandezza. In 33 anni di dischi è entrato nella Top 20 americana una volta sola, nel 1977, con “Short People”. Arrivò al numero due: le strofe che sfottevano i bassi di statura (“Short people got no reason, Short people got no reason, Short People got no reason to live”) vennero canticchiate da mezza America e suscitarono un putiferio di proteste. In realtà Newman voleva prendere in giro i pregiudizi, ma fu ben frainteso e secondo il settimanale Entertainment Weekly divenne “la prima vittima dell’era del politically correct”. “Ne sono onorato”, disse la vittima, che non se la prese tanto: intanto era arrivata al successo, finalmente, e poi “quella era una bella canzone, non me ne pentirei mai”. Ed ecco qua belle e scodellate le due questioni, con la carriera di Randy Newman: non capiscono quel che scrive e non vende milioni di dischi. Ma a mio zio non importa, per lui e gli altri 40 mila, è il più grande di tutti.
Randy Newman è nato a New Orleans nel 1943, ma a sette anni si è trasferito a Los Angeles, salvo tornare spesso in Louisiana dalla famiglia di sua madre. Suo padre faceva il medico dei divi a Hollywood, e i suoi zii scrivevano colonne sonore per i film. Alfred Newman vinse nove Oscar ed è l’autore nientemeno che di quello squillo di trombe che si sente all’inizio dei film della 20th Century Fox. “A cinque anni mi misero in camera un pianoforte, nel caso fossi Mozart o qualcosa del genere. Credo di essermi sentito un po’ sotto pressione”. Così prese lezioni di piano e cominciò a comporre, e a sedici anni il suo amico Lenny gli fece avere un contratto per una casa di edizioni musicali: cento dollari al mese per scrivere canzoni. Ne scrisse tante e non straordinarie, ma le cantarono Ray Charles, Barbra Streisand, Wilson Pickett e Johnny Cash. Poi un giorno Pat Boone, che era un paziente di suo padre, gli suggerì di mettersi a cantarsele da solo, le sue canzoni. Nessuno mai ci aveva pensato, con la voce nasale e un po’ nera che aveva, ma la cosa ingranò e nel 1968 uscì il primo disco, dal titolo un po’ ardito e del tutto fallimentare: “Randy Newman creates something new under the sun”. Non se lo comprò nessuno ed ebbe ottime critiche. “Rock per adulti”, lo chiamarono, che allora il rock era una roba solo per ragazzi. E da allora in poi Randy Newman diventò un maestro della musica contemporanea.
Le canzoni di Randy Newman, dice mio zio, mentre parcheggia la Volvo. Gira la chiave e lascia l’autoradio accesa. Le canzoni di Randy Newman sono fatte in modo che proprio quando pensi di aver capito di cosa parlano, ti accorgi di esserti sbagliato, o forse no. Non sei mai sicuro. In 33 anni ha scritto duecento pezzi quasi sempre anomali per un compositore di canzoni. Li hanno chiamati satira, li hanno chiamati poesia, li hanno chiamati letteratura. E in effetti sono racconti. Racconti di America, di personaggi comuni, ordinari, spesso sgradevoli, spesso presi in giro con l’immedesimazione del narratore in prima persona. Questo è il guaio, ha detto Newman: “Se fai un film, la gente non pensa che il narratore sia tu, se scrivi un racconto neanche, ma se scrivi una canzone sì”. E in duecento canzoni Newman si è reso piromane, assassino, ladro, intollerante, razzista, traditore, erotomane, omofobo, egoista, ogni volta dividendo gli ascoltatori tra chi pensava che dicesse sul serio, chi pensava che facesse dell’ironia e chi pensava un po’ tutte e due le cose. Che è quello che più si avvicina alla verità, dice mio zio. Nel senso che descrive la normalità di tutte queste figure, mostra personaggi repellenti e ci fa capire come ci somiglino un po’, come basti poco. Ha scritto in prima persona “Short People” ed è stato anche minacciato di morte, ha scritto “Half a man” sugli omosessuali e anche lì è stato frainteso, ha scritto “Political Science” in cui i politici che si sentono frustrati e non amati decidono di buttare un po’ di bombe, e “Rednecks” in cui i tipici razzisti del sud un po’ coglioni (“We don’t know our ass from a hole in the ground”) si vantano di tenere i “niggers down”. “Quando ho dei neri tra il pubblco, ho sempre un po’ paura di come reagiranno”, dice Newman. E secondo mio zio non si sa mai come va a finire, con le sue canzoni. Una delle più belle e famose, “Sail Away”, ha una solenne e struggente orchestrazione e pare un inno a partire per l’America, il paese della libertà dove tutto è più bello, finché non capisci che sono le parole di un negriero agli africani che sta caricando sulla sua nave per andare a venderli come schiavi. “Davy the fat boy” parla di un uomo che si prende carico del bambino a cui sono morti i genitori, e poi ne fa un fenomeno da baraccone. “You can leave your hat on”, tramutata in tema erotico di cassetta dalla versione di Joe Cocker per Nove settimane e mezzo, si riferisce nelle intenzioni a un frustrato e debole semimpotente. “Yellow man” sembra prendere in giro i cinesi e le loro abitudini, prima di mostrare che sono esattamente come le nostre. E così via.
Quando a Randy Newman chiesero cosa avrebbe pensato dell’autore, ascoltando le sue canzoni, lui disse “una specie di pseudo intellettuale liberal dell’Ovest, che è quello che sono”. Il mito vuole che la sua prima immedesimazione nella diversità sia venuto quando da bambino non venne invitato a una festa perché era ebreo. Lui andò da suo padre e gli chiese “papà, cos’è un ebreo?”. Poi vide come trattavano i neri in Louisiana, e ne avrebbe scritto canzoni. Poi lo chiamarono Quattrocchi a scuola, e ne scrisse canzoni. Diventò una sorta di misantropo innamorato della gente (“La gente è la gente, non sono dei mostri”) e dello scrivere canzoni. “Non c’è niente di così grandioso come la sensazione di aver scritto una canzone. Venderei mia madre per una buona canzone. Se dovessi sfruttarla per scriverla, lo farei”. Si affezionò a uno stile melodico dolce e datato, arrangiamenti e costruzioni che ricordano la musica americana tra le due guerre, e a un certo punto la strada dello zio Alfred lo chiamò. Oggi ha ricevuto quattordici nominations per l’Oscar e non ne ha mai vinto uno. Nel 199 ne ha avute tre per tre film diversi, mai visto. Ha scritto le colonne sonore di Ragtime, Il migliore, Risvegli, Avalon, Babe, Toy Story, e una ventina di altri. A proposito della canzone “I’m dead (but I don’t know it)”, in cui prende in giro le rockstar alla Mick Jagger che non smettono di agitarsi sul palco neanche a una certa età, ha detto: “Appena mi accorgo che non ho più niente di nuovo da dire, smetto e lavoro solo con il cinema: tanto lì non se ne accorgono”. Continua a scrivere anche per gli altri: sul suo ultimo cd c’è una rara canzone d’amore, che gli era stata chiesta da Michael Jackson. Scrivere per gli altri e per il cinema mette Newman in uno stato del tutto diverso, è meno selettivo, si immedesima nelle storie o negli interpreti senza il pudore che lo trattiene quando l’interprete è lui. E allora scrive belle canzoni d’amore.
Randy Newman ha cinque figli, questo mio zio non lo sapeva. Ha avuto due mogli, ma ha dedicato una canzone solo alla prima, quando era già sposato con la seconda con cui vive tutt’ora, e si intitola “I miss you”. La stiamo sentendo in questo momento, nella Volvo. È in “Bad Love”, il disco dove per la prima volta si è avventurato a parlare davvero di sé. Ai figli e al suo paese ha dedicato l’inquietante “My country”, che ancora una volta si apre come una dichiarazione d’amore (“This is my country, These are my people, This is the world I understand”), salvo svelare che oggi è la televisione che unisce tutto quanto e separa tutti quanti: i tuoi ragazzi sono i tuoi ragazzi, hanno le loro tv ma tornano sempre a trovarti, e anche se li amo sono sempre un po’ contento quando vanno via. Sta sempre in bilico, Randy Newman, e non capisci se sia idealista o cinico, egoista o generoso, umile o prepotente, patriottico o dissidente. “Gli uomini veri per me sono quelli che fanno il loro lavoro, che si svegliano e vanno in ufficio anche se non gli piace. Che portano i ragazzi alla spiaggia anche se preferirebbero guardarsi la partita in tv”. Ma anche “Sapevo che i Sessanta sarebbero passati. È un peccato perché l’idealismo non era male. Solo che non funziona”. Un giornalista del Guardian ha scritto dopo averlo incontrato che gli sembrava uno di quei nevrotici che non hanno bisogno di una terapia, ma sono sempre un po’ depressi.
Lui per anni ha continuato a mostrare il lato ridicolo o sgradevole di tutto e tutti. “La mia musica ha un alto quoziente irritante: non puoi suonarla quando inviti i vicini per il barbecue”. Lo ha fatto con la religione (ci ha fatto addrittura una pièce teatrale, “Faust”, con James Taylor ed Elton John a cantare con lui). E con i colleghi: ha cooptato Paul Simon per una canzone che prende in giro i ragazzi come era Paul Simon che sfogano le loro frustrazioni nella musica scrivendo dei propri sentimenti l’unico sarcasmo di cui si è mai detto pentito e gli Eagles per una esilarante parodia degli Eagles, “Rider in the rain”. Mai una volta sbandando nel volatile genere “comedy”, grazie a canzoni eccellenti, a una musica che permette di mandar giù le parole.
Dice ancora Greil Marcus: “la comunicazione è un fallimento, perché se riesci a comunicare quel che hai da dire a un pubblico di massa, significa che quello hai da dire non è abbastanza profondo”. Quindi Randy Newman non si meraviglia del suo scarso pubblico, ma in concerto gridò che sognava lo Shea Stadium. “Alla gente piacciono le mie cose più convenzionali, e le canzoni che interessano a me sono le altre. Chissà cosa penserebbero i miei 40 mila fans fedelissimi se sapessero che io vorrei conquistare gli altri”. La contraddizione tra il suo orgoglio per le cose che fa, tra il plauso della critica, e il minore risultato di classifica, è un nodo mai risolto. Il successo quello vero, quello da milioni di dischi venduti, gli piacerebbe, l’ha sempre detto. Ma ci si è riavvicinato da lontano solo con le cose che ama meno. Una è “I love LA” che è diventato un inno cittadino per le olimpiadi e la canzone ufficiale della squadra dei Lakers, malgrado contenesse un’ironia sull’ordinarietà della città. Un’altra è “I love to see you smile”, amabile filastrocca composta per la colonna sonora di un film con Steve Martin e comprata a suon di miliardi dalla Colgate per la sua campagna pubblicitaria. “Phil Collins è bravo a scrivere musica che gli fa guadagnare un sacco di soldi, io sono bravo a scrivere queste melodie un po’ datate”, dice. E ancora, “forse la gente vuole confessioni personali. Forse è per questo che non vendo due milioni di dischi”. Dice mio zio che è il più grande di tutti.
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