A Venezia, alla fine della proiezione di “Figli” il pubblico era in piedi a battere le mani, quelli della platea rivolti indietro ad applaudire il regista Marco Bechis e gli attori, Stefania Sandrelli in testa. Mancava, a ricevere l’applauso, il coproduttore Vittorio Cecchi Gori, preso nel frattempo nei guai economici e legali noti. “Per un po’ non abbiamo più saputo che sorte attendesse il film”, racconta Bechis, “nei cinema non arrivava e incontravo chi pensava che fosse già uscito e andato male e subito ritirato”. Invece, finalmente, “Figli” sarà nelle sale italiane da questo weekend, dopo essere stato comprato con dieci altri film dalla Medusa. È la storia di due ragazzi argentini che appena nati sono stati sottratti ai genitori dai loro torturatori, durante la dittatura: uno di loro è cresciuto nella famiglia degli aguzzini senza sapere nulla della verità, che affronta a poco a poco e drammaticamente. “L’organizzazione che si chiama “Figli” esiste davvero in Argentina”, spiega il regista, “e chiede che si cerchi la verità sui genitori di centinaia di ragazzi che hanno subito questa sorte, e che si perseguano gli assassini che li hanno allevati nella menzogna”.
Marco Bechis ha vissuto in Argentina fino a sedici anni, figlio di un ingegnere milanese impiegato in un’azienda italiana in Sudamerica. Decise di tornarci qualche anno dopo, per fare il maestro elementare. Era diventato il tempo dei generali e del terrore, e un giorno “per qualcuno che avevo ospitato a dormire, una cosa così” i militari vennero a prenderlo e lo portarono in uno scantinato di tortura che avrebbe poi ricostruito nel suo penultimo film “Garage Olimpo” (si chiamava “Club Atletico”, in realtà). Ce lo tennero quindici giorni, e quattro mesi in un carcere militare, prima che le autorità italiane riuscissero a farlo espellere e rientrare.
“”Figli” è un film diverso: questa volta non racconto una storia che tutti sapevano ma che nessuno voleva vedere, ma una storia che nessuno vuole sapere”. La madre è Stefania Sandrelli, “che ha dovuto forzare molto il suo personaggio. D’altra parte, non volevamo una madre che sembrasse un’arpia dalla prima scena: il contrasto tra il tono materno e protettivo e la sua colpa incancellabile è stato una scelta forte”.
L’Argentina oggi è su tutti i giornali e Bechis segue i suoi guai con premura appassionata di argentino e attenzione tecnica di cineasta. Per via di biografia, conosce bene la storia degli interessi italiani laggiù: “È riduttivo dire che la colpa è tutta dei politici: gli interessi economici internazionali si sono alleati con la classe al potere per portarsi via tutto. Con la parità dollaro-peso i ricchi andavano in Europa e si sentivano al passo con il mondo, e gli altri non potevano permettersi quasi niente”. Cosa pensa del tentativo di Duhalde? “Duhalde è un mafioso che ha già governato una provincia creando una struttura di traffici e repressioni poliziesche. In Argentina la polizia e i militari hanno ancora la stessa cultura dei tempi della dittatura. Uno dei ragazzi che avevo intervistato per girare “Figli” è stato picchiato e torturato con un pungolo elettrico la settimana scorsa”.
A un certo punto di “Figli” si mostra una scena vera di una manifestazione in cui i ragazzi indicano agli abitanti di un quartiere di Buenos Aires che uno dei loro vicini è un torturatore impunito del regime: mostrano prove, attaccano volantini, parlano con tutti. “Non è una situazione leggibile con gli occhi di una democrazia risolta: in Argentina i conti con il passato non sono mai stati fatti”, risponde Bechis: “assassini e massacratori non sono mai stati giudicati, non hanno mai pagato, vivono liberi con le loro coscienze sporche. È una mancanza politica che i ragazzi sono costretti a supplire così”.