Il guaio con le tesi controcorrente è che, per quanto assurde o abiette siano, per contraddirle bisogna seguire le corrente: dire cose scontate, banali, vecchie. Un tempo l’alternativa era tacere sdegnosamente, ma di questi tempi il silenzio non paga. Si lascia passare un delirio e il giorno dopo ce lo si trova apparecchiato per colazione. L’arma vincente della moda revisionista e della parte disgraziata dei suoi frutti, così come della battaglia schiacciasassi contro il politically correct è tutta lì: dirla grossa paga dialetticamente molto di più che dirla piccola, mentre aiutare le vecchiette ad attraversare la strada è ridicolmente politically correct.
Così, cosa dire contro la tortura? Cosa dire contro l’omicidio, ovvero la pena di morte? Cosa dire contro il tentativo di legittimare atti moralmente e criminalmente orrendi attraverso la loro stessa legittimazione per editto? Cosa dire contro l’eventualità di legalizzare la corruzione, in certi casi, o il furto, sempre in certi casi? Tutto questo è assurdo. Ma bisogna parlarne, pare.
Proviamo a tenerci quindi solo sul lato pratico, il preteso realismo che calpesta i principi è questione rischiosa ma non cassabile a priori. Nel caso della pena di morte, per esempio, i sostenitori si aggrappano alla indimostrata tesi che essa limiti i delitti e dunque possa derogare a un diritto abbastanza caro alla nostra cultura, e cioè il diritto alla vita. Con la tortura, tutto risale alla fine al caso della bomba a orologeria: una bomba sta per esplodere in un luogo affollato, un uomo sa dov’è ed è tra le mani della polizia. Che fare?
Ipotesi uno: nulla. La tortura è un crimine, una vergogna per chi la compie e per la società che la autorizza, un precedente per ogni ignominia, uno strumento ingestibile con equità ed è una pazzia utopistica che l’avvocato Dershowitz possa pensare di poterla amministrare legalmente -, il contrario di qualsiasi idea di recupero del reo, più di quanto non lo sia già e notoriamente il carcere (diversi aspiranti martiri palestinesi hanno spiegato di essersi resi disponibili al terrorismo suicida dopo essere passati attraverso le note torture autorizzate israeliane). Quindi, ne abbiamo parlato perché siamo una civiltà aperta che propone e discute, ma adesso facciamola finita e restiamo almeno una civiltà.
Ipotesi due: si consente a legalizzare la tortura per salvare delle altre vite, come nel caso della bomba. Ovvero si introduce così proporrebbe Dershowitz, che peraltro ha detto alla BBC a proposito di Guantanamo che “le preoccupazioni sulla sicurezza non giustificano mai trattamenti inumani” un’autorizzazione a torturare a discrezione dei giudici, come se non ci bastassero gli esempi sui rischi della discrezionalità giudiziaria, con l’indiscutibile risultato di far aumentare anche le torture non autorizzate e lo sdoganamento di delitti finora almeno riprovati. Con il secondo risultato di una separazione della legge dai principi morali, che non è mai una bella cosa. E con il terzo risultato di perdere ogni diritto a considerarsi paesi e società civili nei confronti di quelli che invece condanniamo, tra l’altro, per l’uso della tortura. Alla Cina non chiederemo più di restaurare i diritti civili e abolire l’uso della tortura, ma di abolire l’uso della tortura non autorizzata. Complimenti.
Ipotesi tre: ci si comporta realisticamente, davvero. Il caso della bomba a orologeria è già previsto nei nostri codici e si è presentato in forme diverse molte volte. La tortura, l’omicidio, sono reati penalmente perseguibili. Li si persegue, si istruiscono processi contro chi li ha praticati, si stabiliscono aggravanti per chi lo ha fatto in nome della legge. E si stabiliscono attenuanti, discrezionalità sulla pena, sistemi di clemenza, per chi ha compiuto questi reati in stati di necessità compresi dalla morale comune. Questo già accade, dalla legittima difesa in poi. Un agente di polizia che torturasse il terrorista della bomba a orologeria e salvasse delle persone, nel nostro presente sistema giuridico sarebbe processato e condannato perché la tortura è a ragione un reato, e dispensato da una pena attraverso tutte le giuste e immaginabili attenuanti del caso. Così funzionano le società civili: si fissano dei principi di giustizia, lasciando spazio sufficiente alla loro interpretazione nelle situazioni straordinarie. I principi si adattano al realismo, volendo: non c’è bisogno di calpestarli, e con gli scarponi chiodati.
Un bel dibattito sulla tortura, ah sì
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