Temo di essere uno di quelli che Antonio Socci chiama semplificatori. Lo ammetto leggermente perché spero di nascondere così un’ignoranza imparagonabile alla preparazione di Socci. Da semplificatore vedo che lo scontro delle civiltà viene vinto dalle religioni, e lo scontro delle religioni è un’ottima operazione di marketing per tutti quanti i religiosi, ma ci arrivo dopo. Vedo anche alcune cose che non stanno in piedi nel modo in cui Socci vuole dimostrare la necessità di esibire nei testi fondanti un legame tra la formazione dell’Unione Europea e la storia del Cristianesimo. Ambiguità linguistiche ed escamotages dialettici sostengono la tesi assai debolmente. Cominciando dalla fine: Socci cita Ratzinger, “se si vuol dire che nella vita pubblica non c’è posto per Dio, questo è un grave errore”. E aggiunge di sua penna che “certi valori devono manifestarsi pubblicamente”. Allora, che proprio debbano, che si tratti di un obbligo, non mi pare. Se uno vuole manifestarli pubblicamente, deve poterlo fare, certo. Ma quello che ognuno manifesta pubblicamente e la “vita pubblica” di Ratzinger sono due cose diverse. Nella vita pubblica di tutti ci deve essere posto per Dio, e per i figli, e per la pallavolo. Nella vita pubblica intesa come quella dello Stato e delle istituzioni non direi che ci debba essere per forza posto per Dio: in quella del nostro paese, tolti i crocifissi a scuola e la messa su Raiuno, questo posto formalmente non c’è, e ci troviamo tutti piuttosto bene.
Socci cerca di dar forza alla necessità di un richiamo a Dio nella nuova Carta europea affermando che se questa necessità è sostenuta da Cossiga e non “da certi suoi cattolicissimi colleghi italiani”, questo dovrebbe significare che non è un’iniziativa bigotta, ma liberale. Argomento assai fragile, data la nota versatilità di passioni del liberale Cossiga, e in ogni caso una rondine non fa primavera. La pena di morte non è meno una scelta reazionaria quando a sostenerla è il democratico Gore. Infine Socci, che conosce bene queste cose, mette in un unico calderone Dio e cultura, fede e storia, tutto sotto il cappellone dell’espressione “civiltà”: e così pretende che in nome della eccezionale storia dell’Europa cristiana, si metta per iscritto la nostra disciplina nei confronti di un Dio. Come se le conquiste spaziali sovietiche o la grandezza della nazionale di basket dell’URSS nobilitassero il comunismo e richiedessero un maggior rispetto per quella ideologia. Inoltre sempre per noi vecchi semplificatori lo stesso ragionamento imporrebbe alla Grecia europeista di suggerire l’introduzione di Zeus e Afrodite, o quantomeno di Socrate e Platone, nella stessa carta in nome di quel che ha dato a tutti noi e ha dato, altroché, e qualche tempo prima del Cristianesimo – la cultura ellenista.
Adesso dico un’altra cosa, spero non troppo irrispettosa. Dall’11 settembre a oggi la pretesa di legittimazione dogmatica della religione sta superando ogni obiezione equilibrata. Bocche cucite. La necessità “politically correct” (demagogica citazione di un tema caro al Foglio) di distinguere i bravi e onesti musulmani da quelli cattivi ha fatto cadere ogni obiezione civile nei confronti delle norme islamiche, lasciando il campo della discussione solo ai Goicoechea dell’area di rigore teologica, interventi a gamba tesa, legamenti rotti e sputi in faccia di quattro pagine. Come doppio effetto collaterale, l’obbedienza al Dio dei cristiani è diventata indiscutibile: se lo è quella degli arabi, figuriamoci la nostra, e se quella degli arabi fa schifo, allora evviva evviva la nostra. Qui da noi è tutta un’esibizione di presepi, conversioni da rotocalco e tonache televisive (ma di amare il proprio prossimo come se stessi, manco a parlarne): nel resto d’Europa crisi di vocazioni, chiese che chiudono i battenti e in Inghilterra – dove peraltro un cattolico non può diventare principe e seguendo Socci la norma sarebbe legittimata dalla storia dell’anglicanesimo Tony Blair dice che “il fondamentalismo islamico non è diverso dai protestanti che escono per le strade di Belfast e uccidono un cattolico”. E l’Economist scrive: “La questione delle scuole private religiose non è se a ognuno deve essere concesso di educare i figli secondo la propria fede. È chiaro che sì, fintanto queste garantiscono ai ragazzi anche una quota sufficiente di educazione reale, oltre a rimpinzarli di antiche credenze e superstizioni”. Mi è tornato in mente leggendo dell’attacco papale agli oroscopi (povero Papa, uno che ha abbattuto il comunismo costretto a lottare contro Branko). Non è male che l’obiezione contro i tentativi di conoscere il futuro venga dai rappresentanti di una religione che rispetto al futuro prossimo ci offre tre opzioni esatte (addirittura riconducibili a una sola e misericordiosa) e tutte matematicamente prevedibili in ragione del nostro comportamento terreno.
Ieri Repubblica citava degli studi psicologici sulla superstizione, non importa quanto attendibili, in cui la si definisce come “il tentativo dell’uomo di capire i fenomeni irrazionali”. Sostituire superstizione. Detto questo, se c’è gente capace di dare venti milioni a Wanna Marchi per farsi togliere il malocchio, alcune cose assai discutibili richieste dalla fede cattolica che non mi permetto di mettere in dubbio qui, sono tutto sommato poca cosa. Certo, il cristianesimo terreno è la vera ideologia superiore della storia e la fede con tutti i suoi accessori è una scelta legittima e degna di rispetto. E personale. Ma sarebbe legittimo e anzi utile ogni dubbio e critica su ogni cultura, e in giro ci sono molti pavidi del “religiously correct”: l’antropologia culturale è rinata a casa, il laicismo è fuori moda e le accuse di persecuzioni religiose sono sulla bocca di qualsiasi distributore di opuscoli. Bocche cucite, obiezioni su Dio nella carta europea fatemi il favore lasciate a Jospin, ma è sempre meglio l’ateismo ripiegato degli integralismi delle religioni. E che la laicità dell’Europa sia messa per iscritto, non importa proprio, grazie.