Verso il confine

Nel documento pubblicato l’altroieri in cui “diciassette intellettuali italiani e stranieri hanno lanciato un appello per la creazione di un confine chiaro tra israeliani e palestinesi”, il nodo compare quasi subito, dopo poche righe. “La mancanza di chiari confini tra le due nazioni”, è scritto, “è una delle cause principali del sangue versato in questi mesi”. Perché un nodo? Perché è la mancanza delle due nazioni, prima ancora che dei confini, ad essere la causa prima del sangue versato in questi decenni: prima la mancanza di uno stato di Israele e poi la mancanza di uno stato palestinese. La questione che il documento degli intellettuali pone, cercando delicatamente di non esplicitarla direttamente, è in effetti cosa ci debba essere da una parte e soprattutto dall’altra di questo confine unilateralmente deciso e messo in pratica da Israele. E ponendola, rischia di rendere più faticoso lo sviluppo della semplice proposta che avanza.
Introducendo una lunga intervista a Ehud Barak sul Guardian della settimana scorsa (intervista di cui il quotidiano ha poi discusso e ripreso la considerazione di Barak a proposito di Arafat, per cui “per la cultura araba mentire non è un problema vissuto gravemente come per la cultura giudaico-cristiana”), Benny Morris faceva il riassunto dello showdown fallimentare di Camp David. “Clinton lesse lentamente ad Arafat un documento già approvato da Barak, che definiva i punti di un futuro accordo”. La proposta comprendeva la creazione di uno stato palestinese demilitarizzato nel 92% della Cisgiordania e in tutta Gaza, con alcune ulteriori concessioni territoriali ai palestinesi sottratte ai confini di Israele di prima del 1967, lo smantellamento di gran parte degli insediamenti e la concentrazione del grosso dei rimanenti nell’8% della Cisgiordania trattenuto da Israele. Arafat, come si sa, rifiutò e fece fagotto. Ma quello schema disegnato da Bill Clinton rimane il dato di partenza per le definizioni geografiche dei confini e dei negoziati futuri, con le variabili delle zone cuscinetto, del collegamento tra Gaza e Cisgiordania (ponte? Tunnel? strada blindata?), del numero di insediamenti da abbandonare. Meno chiaro è il dato di partenza, appunto, su quale entità politica e militare delimitino questi confini.
In Israele, anche sui giornali più di sinistra, nessuno parla di Palestina. Le questioni, le decisioni, le necessità, sono sempre riferite ai “palestinesi”, ai territori dell’Autorità Palestinese, e, come referente politico all’Autorità Palestinese. Di solito si tratta di una resistenza a ogni concessione, anche così virtuale, che possa essere usata sul tavolo delle contrattazioni. Altre volte, nella sinistra più solidale con la causa palestinese, non si riconosce come Palestina niente di quello che è stato disegnato e ipotizzato finora, Questo costringe spesso ad acrobazie linguistiche anche le proposte più progressiste, e lo stesso accade a quella dei diciassette intellettuali promossa da Avraham Yehoshua. Che infatti parla di separazione unilaterale dai palestinesi, riprendendo la formula usata in Israele dai molti sostenitori del progetto, tra cui i laboristi Shlomo Ben-Ami e Haim Ramon e l’ex direttore di Maariv Yacov Erez. L’acrobazia non riesce in quel passaggio sulle “due nazioni”. Quello che condividono i vari sostenitori del progetto è la creazione di un confine intorno a Israele: questo è il secondo significato, geometrico, dell’espressione “unilaterale” che fa da bandiera alla campagna. Non è possibile creare un confine tra due stati, perché uno dei due stati non esiste, e perché se anche passasse la sua creazione – malgrado i rifiuti recenti pubblici e sonori da parte del Likud non aiutino – sono lontane dall’essere chiarite le sue forme, politiche e geografiche. Le due anime della campagna per la separazione unilaterale – quella che chiede la creazione di un confine tra le due entità, e quella che chiede una recinzione di sicurezza intorno a Israele – trovano la migliore espressione nel compromesso per cui Israele dovrebbe decidere e creare un confine politico e geografico intorno a se stesso: come chiede il documento di Yehoshua, in cui l’allusione a una posizione paritetica tra israeliani e palestinesi – dettata da un’esigenza diplomatica di equidistanza – è fuorviante. Al Guardian, Barak ha spiegato che “Israele dovrebbe preparasi per un ritiro unilaterale da circa il 75% della Cisgiordania e completamente o quasi da Gaza, rientrare in confini difendibili, e lasciare che uno stato palestinese si crei in quei territori. Nel frattempo, costruire una recinzione solida e impenetrabile intorno alle aree delicate e nuovi insediamenti all’interno di Israele e della parte di Cisgiordania che diverrà israeliana, per assorbire i coloni che dovranno abbandonare i territori”. Dopo di che, quando i palestinesi saranno pronti a fare la pace, si discuterà il destino del rimanente 25% della Cisgiordania. Barak non ha voce in capitolo, oggi, e sembra lontano dal riprenderla. Il suo sforzo, è giusto che sia ripreso da Yehoshua e da chiunque altro nel modo più chiaro ed efficace. Prescindendo quindi dalla ricerca di una contropartita palestinese in termini di
garanzie e di risultati immediati, ma facendosi forte di una scelta strategica che sottrarrebbe peso politico alle riluttanze di Arafat.

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