Africana un par di balle

Bahia, agli italiani che ci vanno, ricorda un po’ Napoli. Ha il suo golfo, il suo tramonto sul mare, le sue meraviglie e le sue sfortune. Ma forse è la solita impressione provinciale del turista, se ad Angelique Kidjo, la prima volta che c’è andata, Bahia è sembrata uguale al posto dove era nata, il Benin. “Tutti mi dicevano: vai a Bahia, ti toglierà il fiato. E io sbuffavo, che sarà mai? Ma non ho fatto in tempo ad arrivare che sentivo già gli odori dell’Africa, e la stessa gente, e i colori. E poi la musica”. Angelique Kidjo è una delle cantanti africane più apprezzate in Occidente e ha appena pubblicato un nuovo cd dedicato alla città brasiliana e alle mutue influenze tra una costa e l’altra dell’Atlantico. Angelique si è trasferita prima in Francia e poi a New York, e ha pubblicato dischi piacevoli e originali lavorando con i suoni e gli artisti europei e americani, che alcuni hanno accusato di essere troppo poco “africani”. “Qui vi aspettate che la musica africana corrisponda alla casella “musica africana” che vi siete disegnati, quando l’Africa è un continente così grande e vario che ogni cento chilometri si parla una lingua diversa e nel mio stesso paese ci sono ritmi e suoni sconosciuti anche per me”. La sua passione per la commistione delle lingue e delle influenze l’ha portata a Bahia, e a un cd con cose francesi, brasiliane, beninesi, americane. C’è una canzone di Gilberto Gil e una di Serge Gainsbourg (“Ces petits riens”, una rivelazione per chi non l’aveva sentita nel 1964: è “Ragazze dell’est” di Baglioni, sputata). Ci suona Vinicius Cantuaria e ci canta Dave Matthews (con esiti incerti, ricordando Lionel Richie). Mettete tutto assieme a una leziosa e banale copertina in cui la ragazza indossa una camicia etnica e il titolo del cd ha i caratteri riccioluti, e avrete il tipico prodotto di terzomondismo musicale da tavolino da tè. Ma la confezione è ingannevole, e Angelique è molto più tosta di così. La sua risata sonora a bocca spalancata risuona intorno a lei. Parla di come Bahia somigli al Benin, nera all’85% la prima, nero al 100% il secondo. Salvo che l’altro 15%, a Bahia, gode del 90% della ricchezza, dell’istruzione e del potere. Ma a dirle che la musica, il carnevale e il mito della serenità baiana potrebbero essere un oppio per quei popoli in cui i movimenti di emancipazione e antirazzisti sono assai deboli, Angelique si incazza: “e che possono fare? Tutto è in mano ai bianchi, sono tutti bianchi anche i personaggi delle telenovelas. Per la gente di là la musica è un aiuto ad andare avanti, a sopportare. Preferisco che sentano la musica piuttosto che prendano una pistola o vadano in giro ad ammazzare la gente in nome della religione”. E non è passata dall’altra parte, malgrado New York: “prendete la foresta amazzonica, e la distruzione degli alberi: chi sono i responsabili della catastrofe? Europei e americani. Chi ci guadagna? Europei e americani. Chi produce le armi con cui si ammazzano i poveracci delle favelas? Europei e amricani. Chi produce le mine “intelligenti” su cui i disgraziati del mondo saltano in aria?”. La musica ha forza, insiste Angelique, “guardate cosa è successo con Mandela e il Sudafrica e ditemi non è vero”.
Ma a New York sta bene, è considerata un’artista e basta, “e non una cantante africana”; malgrado tra il razzismo paternalista francese e il segregazionismo americano, per cui bianchi e neri vivono separati in tutto, non saprebbe dire cosa sia peggio. “Ma io di giustizia e politica non ne voglio parlare: se te ne occupi, devi essere disposto a soffrire delusioni e infelicità. E quando uno è infelice, lo trasmette anche agli altri. Io non me la sento”. Ma sotto il titolo “Black Ivory Soul” del suo nuovo cd, scelto forse da un pigro ufficio marketing, ci sono testi che parlano di bambini infreddoliti e soli, di battaglie da combattere, di Mama Africa e di tenere duro. Angelique è quella lì.

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