L’uso personale della giustizia

Sabato e domenica, per due sere di seguito, la tivù francese – su due reti diverse – ha dedicato due talk-show a Carlos, l’ex terrorista più ricercato del mondo oggi detenuto nel carcere di Chateauroux. Lo spunto era il libro scritto dalla sua compagna, l’avvocato Isabelle Coutant-Peyre, che ha sposato Carlos in carcere dopo esserne stata il difensore, ed era in studio assieme ad altri ospiti. Per un italiano, la cosa impressionante era la distanza tra la gravità delle cose che si discutevano e la leggerezza dei toni e dei modi. Oltre a scontare una condanna all’ergastolo per l’uccisione di due poliziotti francesi, Carlos è ritenuto responsabile di molti attentati e stragi in Francia e nel resto del mondo, tra gli anni Settanta e Ottanta, rivendicati in nome delle ragioni del popolo palestinese, o della rivoluzione comunista. Le immagini tremende delle stragi erano mostrate durante la ricostruzione televisiva. Lo stesso Carlos, in una eccezionale intervista telefonica concessa al conduttore di uno dei talk-show, si mostrava una persona disumana, anacronistica ed esaltata, odiosa anche all’orecchio più cinico. Tra le sue risposte, queste: “mi considero un rivoluzionario professionista”, “di 1500 persone che sono state uccise nelle nostre azioni – circa 1500, ma meno di duemila sicuramente – neanche un decimo può essere considerato “innocente”, e quando si combatte muoiono sempre degli innocenti”; “quando si uccidono degli innocenti non si può certo essere contenti, ma perché condannarlo?”; “bin Laden è un uomo da ammirare, che ha costruito una squadra che l’ha messa nel culo al grande Satana”; “quando sono crollate le torri, ho gridato ‘Allah è grande’”; “la mia prigionia è solo una questione di rapporti di forza”; “Fidel Castro è il più grande rivoluzionario del mondo”.

Di un uomo così, si parlava; di stragi e assassinii così. Eppure, erano lo sfondo per discutere la legittimità della detenzione di Carlos. Secondo Isabelle Coutant-Peyre, i modi con cui Carlos è stato catturato in Sudan e portato in Francia, i modi in cui è stato processato, il regime rigido di detenzione cui è sottoposto, sarebbero illegali. In termini di diritto, la discussione c’è: e in tivù c’è stata, con un andamento eccezionalmente sereno e lieve. Isabelle Coutant-Peyre è una signora graziosa, elegante nei modi, spiritosa, che suscitava simpatia nei conduttori e negli altri ospiti. In uno dei due programmi discuteva con l’avvocato dei parenti delle vittime di Carlos, su posizioni ovviamente opposte: eppure c’erano un rispetto e persino una familiarità tra i due, che erano sorprendenti. La signora lasciava lo studio applaudita dal pubblico, come ogni altro ospite.

C’è voluta questa doppia esperienza televisiva per farmi iniziare a capire qualcosa di come mai io e molti altri abbiamo trovato intollerabili i modi di parte della stampa e degli intellettuali francesi sulla questione dell’estradizione di Cesare Battisti. Il rapporto con la forma e con la sostanza che abbiamo qui è completamente diverso. In Italia non si può discutere di ciò che riguardi un assassino o che riguardi qualisasi tema di una qualche gravità senza sentirsi obbligati a un atteggiamento adeguato, che non lasci dubbi di indulgenza, che bilanci formalmente ogni apertura sui principi, sul senso, sulla correttezza (capiterà anche a me, in questo articolo). Per molti, poi, quell’atteggiamento diventa prevalente sui principi, sul senso, sulla correttezza.
In Francia è molto più consueto che ci si dedichi – anche col puntiglio che a noi sembra eccessivo – a questioni di diritto, di principio, di giustizia e umanità, senza la minima preoccupazione di ferire nessuno, e neanche se stessi. A nessuna delle persone in quegli studi televisivi è venuta la paura di mettersi dalla parte di un assassino, di avallare in qualche modo le cose di cui è responsabile: niente di questo era in discussione. Con il risultato di un dibattito chiaro, tutto sul merito; ma anche spiacevole, a momenti, insensibile. Per noialtri.
Qualcosa del genere è successo con Battisti. La cui questione ha due aspetti sostanziali e uno formale: i francesi si sono dedicati a quelli sostanziali, e hanno trascurato ogni esibizione di sensibilità nei confronti delle cose orrende per cui Battisti è stato condannato. Il primo è la scelta politica francese di consentire a quelli come Battisti di vivere in Francia, che non dovrebbe essere rinnegata; l’altro è la scelleratezza – assai comune, ma adesso stiamo parlando di Battisti – di mettere in galera per un reato commesso venti anni fa, una persona che ha una vita normale, una famiglia, non vive neanche in Italia, col risultato di infliggere solo un dolore e un’incosciente punizione a lui e ai suoi, e destinare alla vergogna e all’inutilità del carcere un uomo che non è più pericoloso per nessuno. Riabilitazione, deterrenza, sicurezza: nessuna delle ragioni legate a un uso della reclusione di qualche senso compare in questo caso.
Poi c’è l’aspetto formale, irrilevante giudiziariamente e politicamente, ma che grava sulla discussione. Sull’orrore degli omicidi per cui è stato condannato e sulle loro ancor più ributtanti motivazioni – di cui ha raccontato molto puntualmente Marco Imarisio sul Corriere – Battisti ha scelto di non dire, o di dire cose piuttosto ambigue. Anzi, rispetto alla sua condanna e alla sua condizione ha deciso di comportarsi in modi che suonano assai sgradevoli non solo ai parenti delle vittime. Non sto a fare esempi. I suoi difensori francesi, fedeli al punto, adottano la stessa linea: ha una vita normale qui, sono passati vent’anni, quindi non deve andare in galera, qualsiasi cosa abbia fatto (non parlo invece dei deliri a proposito della giustizia berlusconiana e del periodo rivoluzionario, che hanno già avuto quel che meritavano da Mario Pirani, Barbara Spinelli e dal direttore del Foglio). Per la sensibilità dei commentatori italiani, è come se fossero entrati cinque elefanti francofoni in una vetreria di Murano. Con il risultato che un simile modo di porre la questione fa fare quattro passi indietro a ogni discussione equilibrata sui fuggiti in Francia, portando anche persone come Pirani e Spinelli su posizioni intransigenti (Pirani ha persino giudicato “desolante” la scarcerazione di Battisti in attesa del giudizio sull’estradizione, oltre a citare un responsabile delle inchieste di quegli anni come fonte imparziale sulla condanna di Battisti). I peggiori danni a una discussione sensata e serena sulla ormai inutile e prepotente detenzione degli ex terroristi li hanno fatti Battisti e i suoi difensori più accesi. Quelli per cui la forma non conta niente.

E arriviamo a noialtri, qui: quelli per cui non conta niente la sostanza. Qui da noi la legge e la giustizia le vogliamo applicare in base a sentimenti personali, fastidi, rancori, affinità, piuttosto che secondo logica, umanità ed efficacia. Nell’applicazione della legge non scegliamo quel che è buono per la comunità, ma gli umani sentimenti degli intervistati. Confondiamo la decisione di un tribunale con il perdono, come hanno fatto non solo Luciano Violante, ma persino Miriam Mafai e Walter Veltroni (che un giudice mandi Priebke a casa sua non ha ovviamente niente a che fare con il fatto che qualcuno lo perdoni o no, ci mancherebbe; e lo stesso per Battisti). Pretendiamo di usare nelle scelte giudiziarie e politiche la stessa disumanità sbrigativa degli assassini con cui abbiamo a che fare, e di fronte al dubbio sul dolore e la violenza di togliere un uomo alla sua famiglia e metterlo inutilmente in galera, rispondiamo rinfacciando il dolore che ha causato lui, e ci mettiamo sul suo stesso piano: mettiamo l’esecuzione della legge sullo stesso piano dell’esecuzione di un omicidio. Nemmeno il rispetto per noi stessi ci trattiene. Non intendiamo la legge come un sistema di utilità comune, ma come un corpo di emozioni e umori. E chiediamo l’estradizione e la galera non già perché serva a qualcosa, ma perché una persona ci sta antipatica, perché non chiede scusa, per le ignoranti ragioni dei suoi difensori, perché è scappato, perché fa lo scrittore e magari persino perché vive a Parigi. Eccolo, l’uso personale della giustizia.

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