“Guardi videocassette porno?”

Una tazzina di caffè, un quaderno aperto scritto in bella calligrafia, giornali mezzi letti, tovaglietta etnica, la luce che entra dal balcone, una pianta da appartamento: sono i soggetti di una foto in bianco e nero virata blu e un po’ mossa, gradevolmente mossa. Diciamo che se uno ha già maturato su di lui un’impressione di conventicole milanesi fighine e di sinistra, tutte Adelphi e Hi-Tech, la copertina del nuovo disco di Ludovico Einaudi non aiuta ad allontanarla. Si chiama “Una mattina”, e nelle note all’interno c’è scritto che “parla di me adesso, della mia vita, delle cose che mi circondano. Del mio piano che ho soprannominato tagore, dei miei figli Jessica e Leo, del tappeto kilim arancione che illumina il soggiorno, delle nuvole che passano lente come navi nel cielo, del sole che entra dalla finestra…”.
Ludovico Einaudi è un compositore e pianista di studi classici, allievo di Berio, autore di colonne sonore e cose teatrali. Ha quarantotto anni. A un certo punto, ha cominciato a incidere raccolte di canzoni per solo pianoforte scritte da lui. Si tratta proprio di canzoni, anche se nessuno le canta. Uno dei suoi molti talenti è la capacità di inventare melodie magnifiche, dolci e malinconiche e di costruirne delle piccole opere di piano basate sulla reiterazione. Malgrado il genere non sia esattamente mainstream, né di grande appeal per i sistemi moderni della comunicazione discografica, ha venduto un sacco di dischi, in Italia e fuori, e soprattutto in Gran Bretagna. E si è costruito un culto di fans che ha ormai superato di molto i confini dei loft milanesi (“ho dei fans metallari”, dice tra il fiero e il perplesso).
Vive a Milano, e viene dalla stirpe degli Einaudi, quelli delle case editrici e delle presidenze della Repubblica. Se entrate in una casa di radical-chic milanesi (esistono, esistono) troverete tutti i suoi dischi (e un kilim arancione, probabilmente). L’ultimo posto dove ho sentito un suo cd è una casa di architetti milanesi a Filicudi. Il primo, parecchi anni fa, una casa di attori milanesi a Milano.
E poi c’è tutto quell’ambaradàn formale della copertina, e di questo alone di intimismo elegante, di cose piccole e calde, che pare avere per nido la distanza tra una poltrona di vimini e e una giacca di velluto. E allora la prima cosa che gli chiedo è “ma tu sei proprio così?”. Lui cerca di capire meglio cosa intendo, pare spiazzato. Quindi è così. I piedi nudi sul tappeto, i divani bianchi, i cd di classica e di Caetano Veloso.
“Voglio dire: hai dei figli?”
“Sì, due”
“E li picchi?”
“Ma no…”
“Guardi videocassette porno?”
“No…”
“Guardi il Grande Fratello”
“No, non guardo mai la televisione…”
Quindi è così.
Il nuovo disco è molto bello, come quelli prima e di più. I puristi degli ambienti accademico-classici da cui proviene storcono un po’ il naso sulle sue cose, per le solite superficialità e invidie di chi si crede tutore della fede. Pensano che sia “commerciale”, che fa ridere di fronte alla sua modestia e all’attenzione alle cose che fa. Camminiamo per il centro di Milano, attraverso la bella mostra di foto di Yann-Arthus Bertrand, la cui opera ha qualcosa di simile a quella di Einaudi, nel rapporto tra raffinatezza, classicità e successo commerciale. Ludovico Einaudi è vestito di nero, ma non quel nero preconfezionato con cui vanno in giro quelli che oggi si credono “artisti” – siano architetti o redattori di moda -, un nero più vissuto e trascurato, una giacca di velluto a coste, una maglietta ingrigita. Mi ascolta chiedergli di sé e guarda avanti, a terra, con l’attenzione e la concentrazione che si riserva di solito a qualcuno che ti parla in un’altra lingua. Tra la gente che affolla il centro e i tram che passano gli domando se abbia anche frequenza con la bruttezza del mondo, con la violenza, con la volgarità, e mentre parlo mi tira indietro con un braccio: “andiamo via da qui, che c’è casino…”.
“A me non interessa conoscere tutto, non si può conoscere tutto: piuttosto che vedere cose brutte e mal fatte in televisione preferisco investire il tempo in cose che mi piacciono”.
Non fa una grinza.
“Hai mai fatto ballare qualcuno, con la musica?”
“Sì, sì: una volta mi hanno invitato in un club a Londra a scegliere la musica della serata, mi sono divertito moltissimo: ho fatto il deejay”.
“E cosa hai messo?”
“Bach, Miles Davis…”
“E ballavano?”
“Beh, ho messo anche Bob Marley”.
Qualche anno fa decise che voleva provare un rapporto con il pubblico più intenso e cominciò a fare concerti: “i primi anni ero molto spaventato, adesso mi diverto”. Tra poco comincia la tournée del nuovo disco, e andrà anche in Gran Bretagna, dove una radio maggiore l’ha adottato e promosso. Suonerà alla Royal Festival Hall. Non so com’è, finiamo a parlare di Carla Bruni e del suo disco dell’anno scorso. “Ci sono due canzoni che mi piacciono moltissimo: nell’iPod c’è questa funzione random per cui scopro continuamente cose nuove a cui mi affeziono”.
“Non ti è mai capitato che qualcuno associasse la tua musica alle cose new age?”
“Sì, e mi ha dato molto fastidio. Intanto perché i miei riferimenti sono altri, e poi perché quella definizione è diventata un calderone di stupidaggini: il suono della foresta, le voci dei delfini…”
Ha una figlia grande, di 21 anni, che canta. Leo invece ha 13 anni e lui e suo padre sono stati assieme in California, quest’estate: “è stato stupendo, lui si è appassionato a tutta la musica con cui ero cresciuto anch’io”. Sono stati a Bodega Bay, dove non c’è più il bar sul moletto, quello degli “Uccelli” di Hitchcock.
“Leo è milanista, adesso andiamo allo stadio assieme, mi piace moltissimo”
“Allo stadio? Sei matto? Con tutto quel baccano?”
“Sì, anche i miei amici mi prendono in giro: non mi stimano un vero tifoso”
Ci salutiamo di nuovo tra una foto del deserto e una dell’Amazzonia. “Grazie”, dice Ludovico Einaudi, “è stata un’intervista diversa dal solito”, e si rincammina per la sua città.
È così.

Abbonati al

Dal 2010 gli articoli del Post sono sempre stati gratuiti e accessibili a tutti, e lo resteranno: perché ogni lettore in più è una persona che sa delle cose in più, e migliora il mondo.

E dal 2010 il Post ha fatto molte cose ma vuole farne ancora, e di nuove.
Puoi darci una mano abbonandoti ai servizi tutti per te del Post. Per cominciare: la famosa newsletter quotidiana, il sito senza banner pubblicitari, la libertà di commentare gli articoli.

È un modo per aiutare, è un modo per avere ancora di più dal Post. È un modo per esserci, quando ci si conta.

Abbonamento mensile
8 euro
Abbonamento annuale
80 euro