Il maggioritario del pensiero

Il dibattito sul senso dei risultati elettorali americani se n’è andato per la tangente. Da una parte ci sono quelli che dicono che ha vinto l’America ignorante, non urbana, meno aperta al mondo, più retrograda, e che quelli che hanno perso sono in realtà la parte migliore della società. Dall’altra ci sono quelli che dicono che gli sconfitti sono elitari e arroganti snob che non vogliono capire il mondo vero e la cui percezione delle cose non arriva oltre la libreria del proprio studio. Punti di vista complessi e articolati, come si vede.

Le reazioni a queste accuse accrescono il tasso di scombinatezza del dibattito. Gli accusati con la coda di paglia si limitano a rimandare le accuse al mittente e rinnovare le accuse contrarie. Quelli che non si riconoscono in queste descrizioni pretendono che esse – non riguardando loro – siano false tout court. Se io elettore di Bush non mi penso omofobo, vuol dire che gli elettori di Bush non sono omfobi. Se io sostenitore di Kerry credo di capire le ragioni vere della sua sconfitta, allora nessun elettore di Kerry è stato cieco e presuntuoso.

David Brooks ha scritto la cosa più importante sul New York Times, qualche giorno fa: ciò che le elezioni hanno detto è che il 53% degli elettori (il 51, in realtà) è soddisfatto della presidenza Bush. Punto. Non “L’America ha scelto Bush”. Non “Un paese diviso”. Non “l’America spaventata da gay e aborto”. No, l’unica cosa vera su queste elezioni che può stare in una frase è: Bush ha preso il trepercento dei voti in più. E siccome quella è una democrazia – dove governa la maggioranza, anche di uno – Bush è presidente, giustamente. E si può discutere di quel trepercento. Ma rendere maggioritaria anche l’analisi, è una fesseria: intanto perché l’analisi non può trascurare le minoranze, a differenza dei sistemi elettorali. E poi perché basta un batter d’ali di farfalla a Springfield, Ohio, eccetera. Centomila voti non sono un dato storico dal significato definitivo. Metti che quel giorno pioveva, metti che non c’era bisogno di far la fila ai seggi, metti che – la ondivaghezza dei sondaggi lo ha dimostrato possibile – Kerry teneva un discorso particolarmente efficace, metti un video di bin Laden o un video in meno di bin Laden, e ora eravamo qui ad analizzare il grande trionfo dell’America liberal. Certo, non è successo, e questo significa qualcosa: ma non può significare tutto. Il maggioritario del pensiero.

Nel basket, come in molti altri sport, si diventa campioni perché a tre secondi dalla fine un pallone è andato esattamente lì invece che un centimetro – mezzo centimetro – più in là. Dopo si è campioni, certo, e meritatamente: ma non si rilegge tutta la storia del mondo alla luce di quello. Lo sport conosce bene il valore delle variabili.

La discussione politica, pare di no. Ieri è uscita una ricerca dell’Università del Maryland per cui il 70% degli elettori di Bush penserebbe che si siano dimostrati chiaramente i legami tra Saddam e Al Qaeda (qualsiasi cosa sia Al Qaeda: diciamo tra Saddam e l’11 settembre) e un terzo degli stessi elettori penserebbe che le armi di distruzione di massa siano state trovate. Capite che se uno deve andare a votare, fa la sua differenza. E quindi adesso vogliamo concludere che la vittoria di Bush è figlia dell’ignoranza?

No, naturalmente. Ma un po’ sì. E un po’ dell’omofobia, e un po’ della paura, e un po’ dell’apprezzamento per il Presidente, e un po’ della mediocrità di Kerry, e un po’ della capacità dei liberals di mobilitare folle di elettori contro di loro. E di mille altre cose. Ci vorrebbe un libro, e poi un altro libro di conclusioni. Di sicuro non “L’America si fida di Bush”, né “Vince l’America più profonda”.

Prendete gli stati rossi e blu. Ecco un altro maggioritario del pensiero. All’interno degli stati rossi e blu succede di tutto, naturalmente: ci sono minoranze blu e rosse, e ciascuna di esse è fatta di persone che hanno votato avendo in testa mille cose diverse. C’è anche un razzismo ombelicocentrico nel pretendere che persone come noi vadano a votare come automi balbettando “no-matrimonio-gay-no-matrimonio-gay”. Oddio, ci saranno anche quelle. Ma appunto, anche. Fatti i conti, il 44% degli elettori vive in uno stato in cui il proprio candidato ha perso. Cioè, quasi metà di loro ha votato invano. E quello dice gli stati rossi e gli stati blu.

Il problema è che la semplificazione giornalistica e il bipolarismo politico e culturale stanno devastando la nostra capacità di comprensione delle cose e la nostra disposizione a ritenerle complesse, poco chiare, con diversi significati. Le vogliamo assolute, definitive, facili e pronte per il titolo, o lo slogan. Le vogliamo maggioritarie.

New York Times, Washington Post

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