At a Closer look

Mike Nichols ha un curriculum stimabilissimo, quindi non è che uno arriva e dice che il suo nuovo film è brutto. E infatti Closer non è brutto, come non era “brutto” Angels in America (che però era noioso assai): i due film hanno qualcosa in comune, soprattutto nella molesta riconoscibilità delle origini teatrali.

Closer non è brutto, ma è insopportabile. Dice Nichols al New York Times: “If everybody is adorable, you can’t go anywhere”. E può anche darsi, ma la storia del cinema dimostra che anche questa assolutezza è una fesseria. È che qui sono tutti spregevolmente fulminati: ci sono quattro disadattati sentimentali che si devastano le vite rispettive facendosi male tutto il tempo più che con i rispettivi tradimenti, con le male parole. Ma anche a chi abbia magari avuto storie brutte abbastanza da poter riconoscere qualcosa nella cattiveria e nell’alienazione che nascono dai tradimenti, questi personaggi e le loro scelte sono continuamente poco credibili, tagliati con l’accetta, responsabili di azioni che non stanno in piedi, necessarie allo svolgimento della trama ma implausibili. A teatro andava bene, forse: a teatro la verosimiglianza e la naturalezza sono meno dovute. L’estensione del significato dell’aggettivo “teatrale” lo dimostra. Qui ti vien voglia di gridare allo schermo «ma vedi d’anna’». Poi magari qualcuno lo troverà “profondo”: ci sono sempre, quelli. Ma ci sono solo due cose buone nel film: i dialoghi spiritosi, che sono molto spiritosi (quelli drammatici invece sono penosi) e la canzone di Damien Rice (la solita) sui titoli di testa

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