A ballare a Li Galli

Oggi sul Foglio c’è una lettera del presidente di Legambiente sul caso dell’arcipelago di Li Galli. È interessante perché ripropone una questione ampiamente trattata tra i teorici e i pratici dell’ambientalismo e centrale nel rapporto con il mondo non umano. Ovvero se la conservazione della “natura” debba ritenersi giusta e da perseguire per il bene della natura stessa o per quello dell’uomo che ne beneficia. Io discussi di questa cosa già a suo tempo con Ermete Realacci, che aveva la stessa posizione del suo successore: ovvero la seconda. Della Seta spiega che per condurre le persone a posizioni ambientaliste bisogna sollecitare il loro egoismo e i loro antropocentrismo. E se fosse solo un ragionamento strategico, sarei d’accordo. Ma dalle parole di Della Seta questa distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è efficace si perde un po’. E io la penso al contrario: penso che l’isola di Li Galli meriti di sopravvivere a costo di non essere vista da nessuno, piuttosto che scomparire per il bene dell’umanità. Penso che salvare il panda non sia solo una cosa buona per noialtri che viviamo in un mondo con i panda, ma soprattutto e prima di tutto per il panda (è la ragione per cui sono anche poco rigido sul fatto che la vita del panda valga molto di più di quella della mucca, o che quella dell’ultimo panda valga più di quella del quartultimo: spiegatelo al quartultimo). Penso che se per salvare il panda dovessimo toglierlo alla vista e alla conoscenza di chiunque, sarebbe la cosa giusta da fare. Anzi: se esistessero solo quattro panda in un angolo del mondo e sopravvivessero solo grazie al fatto che li pensiamo estinti, meglio pensarli estinti. Che invece, per ragioni di efficacia, far vedere i panda negli zoo sia il modo migliore per salvare altri panda, costruendo una maggiore passione per la campagna a favore dei panda, è cosa su cui siamo d’accordo. Ma il nostro godere degli animali sia un mezzo per proteggerli, e non il fine della loro protezione.

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