I limiti della solidarietà

È sempre stato così. Dev’essere per via dell’educazione di sinistra, dell’abitudine a frequentare perdenti fin da bambino. Tra i cowboy e gli indiani, io e mio fratello tenevamo per gli indiani. Tra guardie e ladri, per i ladri (vuoi mettere la bellezza di scappare con il peso del rincorrere?). I nostri personaggi del cinema preferiti erano Redford e Newman, ladri in Butch Cassidy, truffatori nella Stangata. E Burt Reynolds galeotto in Quella sporca ultima meta, Jack Nicholson internato in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Tra le squadre di calcio, il Napoli. Tutte queste cose qui: non per una qualche nobiltà innata – i perdenti, quando li frequenti, ti viene voglia di stare con i vincenti (e viceversa, però) -, solo questione di imprinting.

Mi capita ancora oggi. Per come è andata, ora mi è simpatica persino la Juve (e insopportabile l’Inter, che un tempo ispirava solidarietà). E quando chiudono Wild West e tutti tuonano contro i reality (e intanto conoscono i personaggi uno per uno), sto con i reality. Se cancellassero Porta a porta sento che potrei persino dispiacermi per Bruno Vespa, quel giorno.

Ma adesso che tutti sono contro Buona Domenica, e i ring e le arene, e tutti dicono “si vergognino”, l’educazione solidale improvvisamente viene meno e mi scappa un demagogico “si vergognino”. È solo successo che ne ho visto un pezzetto. E anche la vergogna è un buon sentimento.

Vanity Fair

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