Lavorare tutti

Ogni volta che arrivo negli Stati Uniti, mi stupisco della quantità di manodopera umana tuttora impiegata – nel paese dell’automazione e del progresso tecnologico – per i lavori più piccoli e trascurabili. Due settimane fa ero a New York: scendo dall’aereo e mi avvicino alle file per il controllo dei passaporti. A destra un cartello dice “cittadini Usa” e a sinistra un altro richiama gli stranieri. Eppure, c’è una signorina che chiede la provenienza dei viaggiatori e li indirizza personalmente, a destra o a sinistra. Supero il controllo e passo vicino a due addetti dell’aeroporto che si occupano di sistemare più ordinatamente e comodamente le valigie che vengono espulse sul nastro distributore dei bagagli agli arrivi. Fuori un signore in divisa sta davanti alla fermata e indica alle persone gli ingressi del bus in partenza. Ai taxi, c’è un giovanotto nero che chiede ai passeggeri in fila dove vogliono andare, e poi lo va a dire ai tassisti.

Nei giorni successivi, noto: un cameriere in un ristorante costoso che ha il solo compito di versare l’acqua da una brocca nei bicchieri dei clienti. Un condominio elegante vicino a Central Park in cui l’ascensore è azionato con vecchie leve e saracinesche da un addetto stabilmente di servizio nel suddetto ascensore (a cui penso che non mi abituerei mai: già è imbarazzante stare con qualcuno nell’ascensore, figuriamoci con uno che è lì per portarvi su e giù; e se uno sta al primo piano e ha un’amante all’ottavo, che fa? Sette piani di scale tutto il tempo, per amore?).

Da Starbucks, dove in teoria tutto sarebbe costruito per farvi arrangiare da soli, dietro al banco c’è uno che vi chiede cosa volete, uno che ve lo prepara, e uno che vi fa pagare. Entro in un palazzo di uffici e ci sono tre persone alla reception: uno mi chiede a che piano vado. “Diciottesimo”, faccio io. “Ok”, fa lui. Al supermercato, c’è un impiegato che si occupa di mettere le mie cose in un sacchetto di plastica (anzi due, uno dentro l’altro; anche questa non è male: invece di fare sacchetti più robusti, te ne danno due gracili).

Alla stazione della metropolitana quando arriva il treno, due addetti sul binario si avvicinano al conducente e gli chiedono “È un locale o un espresso?”, e una volta ottenuta la risposta, portano un megafono alla bocca e declamano ai passeggeri in attesa: “E-spres-so! E-spres-so!” (curiosamente, è la stessa cosa che declama il barista di Starbucks al suo collega, ma in italiano).

Ogni volta mi stupisco, dicevo, e sarete d’accordo che da noi tutto questo sarebbe molto strano. Da noi, convinti di imitare la modernità americana in tutto, ogni compito umano che sia sostenibile da una macchina o eliminabile senza trauma per gli utenti, viene eliminato. A volte anche con trauma per gli utenti. L’idea è che se fai un rullo trasportatore per i bagagli, puoi licenziare gli addetti ai bagagli; che se hai dei segnalatori elettronici delle informazioni della metropolitana, puoi licenziare gli addetti alle informazioni; che se il progresso ci ha dato la comodità di ascensori veloci, automatici, programmabili, puoi sostituire le vecchie cabine e licenziare l’omino dell’ascensore. Eccetera.

Sarebbe bello pensare che gli americani mantengano una maggiore diffidenza nei confronti dell’autonomia delle macchine, e preferiscano lasciare sempre qualcuno a sorvegliarle e aiutarle, hai visto mai che si realizzassero le vecchie previsioni fantascientifiche sul dominio della tecnologia: Hal 9000 eccetera. Ma la spiegazione non può essere così letterariamente rassicurante.

Poi mi fermo a rifletterci, e realizzo che tutte queste persone sono probabilmente pagate pochissimo, che molte di loro campano grazie alle mance, che sono licenziabili a piacimento secondo le regole di quaggiù. E che tutto il sistema delle opportunità per tutti eccetera si fonda esattamente su questo meccanismo e questa spietata libertà e inclinazione alla mobilità professionale. Per qualcuno è meglio, per qualcuno è peggio, ci sono i pro e ci sono i contro. Ma è appena stato diffuso il dato sul tasso di disoccupazione negli Stati Uniti: il 4,4 per cento, il più basso dal 2001, in diminuzione continua. E malgrado questo generi anche preoccupazioni (la produttività resta invariata, quindi chi lavora produce meno), crescono anche gli stipendi medi, e, con le parole del dipartimento del lavoro, “i lavori in cui le persone producono delle cose diminuiscono (-60 mila) mentre quelli in cui le persone fanno delle cose aumentano notevolmente (+152mila)”. Basti dire che a fronte dei felici dati sull’occupazione in generale, l’industria automobilistica americana ha toccato il più basso livello di occupazione in quattorrdici anni, con tagli di decine di migliaia di dipendenti da parte di Ford, General Motors e Delphi, in crisi o addirittura vicine alla bancarotta.

Insomma, gli Stati Uniti stanno progressivamente diventando un paese dove lavora chiunque, a costo di fare dei lavori quasi superflui e temporanei.

Lavorare meno, lavorare tutti.

(“perchè non ha mai visto un ufficio/accettazione/biblioteca/reception pubblica in quel di Palermo, dove modestamente nacqui. Il sogno americano (questo sogno americano) elevato a sistema. Serena”)

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