YouTube, esperienze con l’arte contemporanea

Sto precipitando. Altro non so dire, non so a che velocità – a me pare fortissimo – non so fra quanto arriverò al suolo, non so in che direzione sto andando. E soprattutto, non so perché non ci ho pensato prima. 
Neanche un dubbio, una riflessione, una lungimiranza. Sono venuto a buttarmi di sotto come se andassi a vedere una mostra d’arte, e invece stavo andando a fare la cosa più simile al bungee jumping che ho fatto in vita mia. 
Il fatto è che sono andato a vedere una mostra d’arte. O almeno, le altre volte erano mostre d’arte. Arte contemporanea, concettuale, a volte spiazzante: ma le altre volte non si precipitava dal quinto piano. 
Ma cominciamo dall’inizio. 
Londra è una città meravigliosa. La sto prendendo troppo alla larga? Ora stringo. Comunque è meravigliosa, oggi più che mai. Non che sia solo bella, come certe città belle: è la città più moderna, divertente e appassionante del mondo. È un enorme luna park per adulti, una Disneyworld di novità, architetture, invenzioni, eventi, mostre, fenomeni, negozi, spettacoli. È il futuro degli ottimisti. E al centro di questa stagione e di questo luogo – ecco che stringo – sta la Tate Modern, il grande museo d’arte contemporanea installato su una ex centrale elettrica in posizione magnetica sulla riva meridionale del Tamigi, imponente e ipnotica. La Tate Modern dovrebbe essere un esempio per ogni città con velleità “culturali”, per la capacità dei suoi gestori di mescolare didattica, spunti di riflessione e divertimento puro. Una grande sintesi di arte e accessibilità. È in mezzo alla città, è in un posto bellissimo, è gratis (si pagano alcune mostre, ma l’edificio è frequentabile come un parco pubblico) e si inventa cose che richiamano dotti appassionati d’arte e bambini assieme. Giovani studenti d’arte e skaters in tuta. 
L’esca principale di questo successo – sto stringendo, vedete? – è la grande Turbine Hall, sala immensa e altissima mantenuta nella sua dimensione e sfruttata dall’apertura del museo per ospitare installazioni semestrali dedicate e irripetibili, il cui tratto fondante è diventato da subito il coinvolgimento del pubblico. Dopo le prime tre invenzioni spaziali (una grande membrana rossa, un’illusione di solai e prospettive, un trio di torri d’acciaio), la più indimenticabile per i londinesi fu la simulazione di un grande tramonto creata nel 2003 dall’islandese Ólafur Eliasson: la gente arrivava a frotte e si sedeva per terra, si sdraiava, si guardava riflessa sul soffitto, passeggiava in giro, in una specie di illusione di spiaggia postatomica (ma ognuno la vedeva a modo suo). Poi ci furono i suoni confusi di Bruce Nauman che riempivano la sala e le montagne di scatole bianche di Rachel Whiteread. Opere in cui di volta in volta prevaleva lo sfruttamento del formidabile spazio della Turbine Hall oppure l’idea dell’interazione con il pubblico. 
Adesso, dal 10 ottobre le Unilever Series (prendono il nome dello sponsor) stanno di nuovo facendo parlare di sé per il secondo motivo. Il tedesco Carsten Höller ha occupato in realtà solo una parte della sala con un’opera non visivamente spettacolare quanto alcune di quelle che l’hanno preceduta, ma che è diventata in due mesi l’attrazione di cui tutta la città parla. Sono cinque toboga chiusi, genere acquapark, semitrasparenti, che vengono giù con delle spirali dai diversi livelli della Tate verso il centro della sala. L’idea di Höller, non nuovo a ricerche di questo genere, è di trasferire sull’età adulta l’esperienza di scivolare, così presente nella vita da bambini, e di metterci di fronte a come questa esperienza ci cambi: in quei pochi secondi o dopo. In più, gli spettatori dell’opera diventano spettatori anche della partecipazione altrui all’opera, e delle facce e degli atteggiamenti di chi si butta di sotto. 
Così, eccomi qui, in fila ai biglietti (gratuiti), che mi appresto con totale disinvoltura da reporter a vivere l’esperienza di cui poi vorrò raccontare in questo articolo. E mi chiedo se un biglietto permetta più discese, o se poi dovrò fare una nuova fila: sarebbe troppo facile, tutti continuerebbero a salire e scendere, affollando gli ingressi. Probabilmente ogni corsa richiede una coda alla biglietteria. Arriva il mio turno e il ragazzo dietro al vetro mi chiede da quale piano voglio scivolare. “Dal quinto, il più alto”, rispondo senza esitazione: intanto sono qui per lavorare e le cose vanno fatte bene, e poi perché uno dovrebbe limitarsi a un divertimento più piccolo? 
Insomma, lascio la sala a pianterreno dove intanto persone vengono regolarmente sputate fuori dai tubi, prendo l’ascensore, arrivo al quinto, e la piccola coda allo scivolo che avevo visto prima si è nel frattempo dispersa. Non c’è nessuno, solo due addetti che mi passano un sacco di stoffa in cui infilarmi fino al sedere. In una cesta ci sono ginocchiere e caschi facoltativi, ma li ignoro: ho appena letto un articolo sul Guardian spiegare che usarli limita decisamente l’esperienza e anzi che andrebbero sconsigliati. Esito un attimo, come immaginando qualche cerimoniale di partenza, ma nessuno mi si fila. Infilo le gambe nel tubo, mi giro verso gli addetti, aspetto un “pronti, via”, ma quelli stanno chiacchierando tra di loro. “Vado?”, balbetto, e quelli mi fanno un cenno un po’ perplessi e tornano a farsi i fatti loro: sarò il milionesimo che vedono entrare nel buco. Così, comincio lentamente a scivolare e insomma sto scendendo, mi dico, e comincio a prendere velocità. E accelero, e adesso all’improvviso mi chiedo “ma siamo sicuri?”, e prendo velocità, e mi chiedo “avrò fatto una fesseria? Ci sarà una ragione per cui uno non fa bungee jumping”, e la forza centrifuga mi spinge contro la curva, e intanto la sensazione non è esattamente di scivolare: ci sono i giunti tra un tratto e l’altro e sto facendo“tùn-tùn-tùn-tùn-tùn-tùn-tùn”, sto precipitando fortissimo, mi pare, ma chissà quanto manca e comincio a mettermi paura e penso “mi farò male? Mi ammazzerò? Si può morire dentro il tubo di un artista tedesco?”, e cerco di ricordarmi di quelli che ho visto arrivare a terra prima, ed erano vivi, ma fatico – “tùn-tùn-tùn-tùn-tùn-tùn-tùn” – a ricostruire le facce e le espressioni: “come stavano?”. Mi sembra di andar giù come un sasso, girando intorno, ma ancora non vedo la fine, e che idea è stata questa? Non potevo figurarmelo prima che buttarsi su uno scivolo ripidissimo dal quinto piano sarebbe stato come buttarsi su uno scivolo ripidissimo dal quinto piano? Poi all’improvviso – “tùn-tùn-tùn-tùn-tùn-tùn-tùn”, tutto di sbieco sull’esterno della curva – qualcosa si raddrizza e mi trovo sputato fuori, sparato fuori, un missile – “ooooo-ooooh”, lo urlo davvero? O è nella mia testa? – e finisco su un materasso che inspiegabilmente mi frena e mi salva da morte certa. Almeno per me, a quel punto, certa. 
Ci sono persone che mi guardano. Che faccia avrò? Maldestramente, tiro fuori i piedi dal sacco e mi alzo, un po’ barcollando. Stanno già guardando il mio successore, ma io cerco lo stesso di fare la faccia di quello che. Mi allontano affrettando il passo, e inconsciamente non mi dirigo né verso una nuova discesa né verso la biglietteria: vado verso l’uscita. Cerco di ricordarmi cosa ho visto, com’era la grande Turbine Hall vista così: niente, non ho visto un bel niente. Venivo giù come un sasso e vedevo solo un continuo effetto mosso e il “tùn-tùn-tùn-tùn-tùn-tùn-tùn”: lo vedevo, già. Mi avvicino all’uscita e mi chiedo se dovrei tornare su, farne un’altra, per completezza di reportage. Magari dal quarto, magari dal terzo. Magari dal primo. 
Un accidente. 
Esco nel fresco della sera, e nelle luci sul Tamigi. Però forse mi è piaciuto: o forse ho solo voglia di raccontarlo. Sono ancora agitato e mi vergogno un po’: quelli che scendono dalle montagne russe fanno di certo cose molto più pericolose e terrificanti. 
Ma loro non sono un’opera d’arte.

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