L’era del pubbliredazionale

Forse bisognerebbe ridiscutere l’atteggiamento da tenere rispetto alla distinzione tra pubblicità e informazione, nei giornali. Forse, come per il diritto d’autore nell’era di internet, le regole consolidate fanno acqua da troppe parti per pretendere di mantenerle a parole e violarle continuamente nei fatti. Forse dovremmo smettere di pretendere che sulla pubblcità ci sia scritto grosso “pubblicità”, e capire che le cose ormai sono troppo confuse.

Qualche settimana fa, dopo che a Condor avevo raccontato di un articolo del New York Times sul nuovo e particolarissimo telefono Bang & Olufsen, in Rai mi hanno chiesto di moderare la citazione di “marche” (termine desueto in sé). Ho risposto che avrei fatto del mio meglio, per rispetto verso una richiesta da parte di un’azienda che non mi ha mai contestato una virgola di quello che dico in radio ogni giorno, ma che se potevo permettermi la richiesta stessa era una fesseria. Un programma come Condor, che si occupa del mondo del 2006, non può censurarsi rispetto al citare nomi di prodotti o società di cui è fatta la nostra vita ogni giorno e ogni momento. Nella stessa puntata, avevo segnalato un libro sulla storia della Coca-Cola nella società moderna: una “marca”. E tre giorni prima avevo intervistato un giornalista economico che aveva raccontato della ripresa della Fiat: una “marca”. E il giorno prima era stato lo spazio tra i sedili sugli aerei, con le modifiche introdotte da Delta. E i casi simili sono mille. Per non parlare degli editori dei libri che cito: sono “marche” (coi libri si può, mi hanno detto). Certo, so benissimo che da marche a marchette nella categoria dei giornalisti il passo è brevissimo, e di sicuro bisogna stare attenti a chi ne approfitta (alla fine, il telefono Bang & Olufsen, era stato piuttosto stroncato, peraltro). Ma veramente, l’obiezione è ridicola: bisognerebbe sanzionare abusi e marchette, ma non con l’accetta di regole anacronistiche. Chi in un programma televisivo o radiofonico interrompe agitato l’ospite con “la prego, non possiamo fare pubblicità” appena quello dice che ha fatto un incidente con la BMW o ha pranzato da MacDonald’s, sta ancora ai tempi di Rischiatutto.

Il caso di cui volevo parlare adesso era un altro, però. Oggi su Repubblica c’erano due testi molto interessanti. Uno era un inserto sui “trends del fututo” che, malgrado il titolo, offriva molti spunti sui tempi che ci aspettano, meno sciocchi e vecchi di come vengono esposti di solito. E in Cultura c’era un bel racconto di Roberto Calasso sulla nascita di Adelphi: autocompiaciuto, ma bello.

Ora, si dà il caso che l’inserto fosse dedicato una ricerca commissionata da Procter & Gamble, e ne mostrasse ampia citazione e riconoscimento. Nel box di presentazione si legge tra l’altro l’incongrua informazione: “Procter & Gamble, che ogni anno investe due milioni di dollari in ricerca…”. E il pezzo di Calasso nasceva dall’esigenza di pubblicizzare i volumi Adelphi in vendita con Repubblica nei prossimi giorni (bisognerebbe fare il conto di quanta parte dei quotidiani è dedicata in vari modi alla promozione degli allegati vari).

Insomma era pubblicità bella e buona. Pagine e pagine di pubblicità. Eppure, buone letture.

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