A che punto è la Scozia

“La Scozia – in inglese e scozzese Scotland, in gaelico scozzese an Alba – è un paese dell’Europa nord-occidentale ed è una delle quattro nazioni costitutive del Regno Unito. Anticamente chiamata Caledonia, occupa la porzione settentrionale della Gran Bretagna. Consta della regione principale e di più di 790 isole. La sua capitale è Edimburgo; la città maggiore è Glasgow, dove vive il 40% dei cinque milioni di scozzesi. Un tempo regno indipendente, dal 1707, con l’Atto di Unione, entrò a far parte del Regno di Gran Bretagna, assieme all’Inghilterra. I regni di Scozia e Inghilterra erano peraltro già uniti dinasticamente dal 1603.
Nonostante l’appartenenza al Regno Unito, la Scozia vanta un sistema giuridico autonomo, un separato sistema d’educazione e una propria Chiesa nazionale. Dopo il referendum del 1997 sulla devolution, è stato anche ricostituito il Parlamento scozzese (era stato fuso con quello inglese nel 1707), con diverse competenze legislative nelle materie di interesse nazionale scozzese.
Edimburgo è uno dei principali centri finanziari europei. Il fondali del Mare del Nord e dell’Atlantico settentrionale di pertinenza scozzese contengono le più ampie riserve di petrolio dell’Unione Europea”
(Wikipedia)

Trecento anni. Gli Acts of Union furono approvati dai parlamenti inglese e scozzese tra il 1706 e il 1707, ed entrarono in vigore il primo maggio 1707. Sono previste celebrazioni del tricentenario, tra tre mesi, ma non troppe celebrazioni. Il ministro della Cultura scozzese Patricia Ferguson ha annunciato una moneta commemorativa da due sterline. Forse ci sarà una parata con i fuochi d’artificio a Edinburgo, ma forse no. Dovrebbe venire la regina. Quello che è certo e programmato da tempo, avverrà invece due giorni dopo. Il 3 maggio si terranno le terze elezioni del Parlamento Scozzese, quello nato dalla legge federalista del 1997. Stando ai sondaggi, gli elettori delusi dal partito di maggioranza – quello labourista: conservatori e liberaldemocratici in Scozia si equivalgono poveramente, ciascuno con il 15% degli attuali deputati – potrebbero dare molti voti al Partito Nazionalista Scozzese di Alex Salmond, un movimento nazionalista di inclinazioni più a sinistra dei suoi simili europei. E Alex Salmond va annunciando già da molto tempo che la prima iniziativa di un suo eventuale governo sarà la convocazione di un referendum sull’indipendenza dal Regno Unito: “entro 100 giorni”. I sondaggi più recenti danno il suo partito avanti al Labour di due punti. Altri sondaggi, a novembre, avevano indicato una percentuale tra il 35% e il 52% di scozzesi favorevoli all’indipendenza. Tra gli inglesi, il 59% sarebbe d’accordo. E insomma, la Scozia se ne sta andando.

“L’Unione anglo-scozzese nacque da miseria, religione e guerra. La Scozia era affamata da una serie di carestie, e povera in canna dopo il fallimento delle sue ambizioni imperiali nelle paludi ora note come Panama. L’Inghilterra era in guerra con la Francia e non voleva che gli scozzesi facessero entrare il re Sole dalla porta sul retro. Settori delle classi politiche inglesi e scozzesi videro nell’intesa la possibilità di estinguere per sempre l’influenza cattolica sulle isole britanniche”, (Ruaridh Nicoll, The Observer).

“Negli anni Ottanta, l’imposizione di misure impopolari [nell’economia e nel welfare] da parte del governo Thatcher – misure approvate lontano dalla Scozia – accese le richieste degli elettori scozzesi e dei loro politici. Ogni dubbio sulla necessità di un parlamento scozzese per il futuro di quella nazione svanì rapidamente”, (TM Devine, autore di “The Scottish Nation: 1700-2007”)

Quando nel 1997 Tony Blair divenne primo ministro, si affrettò a mantenere ciò che aveva promesso agli scozzesi che lo avevano aiutato a battere i tories. Nel referendum dell’11 settembre tre scozzesi su quattro votarono perché la Scozia avesse un suo parlamento: nel 1979 – prima che Margaret Thatcher si facesse malvolere – un analogo referendum era fallito per mancanza del quorum richiesto. Il nuovo parlamento scozzese si insediò il 12 maggio 1999: quest’anno si chiude la sua seconda legislatura. Tra le competenze che la devolution gli ha affidato ci sono la scuola, la sanità, le materie ambientali e agricole, la giustizia. Sulle tasse ha alcuni margini di autonomia.
Ma la coalizione tra labouristi e liberaldemocratici che ha governato in questi otto anni non ha eccitato gli scozzesi: l’identità nazionale non ha ricevuto molto più di qualche parata di cornamuse e le speranze di stimoli verso un nuovo futuro soprattutto economico sono andate deluse. Secondo molti, il parlamento è solo diventato il funzionario esecutore della dipendenza economica da Londra.

A dicembre il mensile Prospect ha dedicato una bella copertina a un articolo di Michael Fry, “Via gli scozzesi: perché la Scozia dovrebbe andar da sola”. Fry è un ex deputato tory scozzese, a lungo unionista, che ora scrive: “In Scozia ci sono così tante incognite che è meglio parlare solo di ciò che conosco bene: me stesso. E ora potete contarmi tra coloro che hanno concluso che per gli scozzesi sia meglio l’indipendenza. E che lo sia anche per il resto del Regno Unito”. Fry racconta dell’impresa privata paralizzata dall’invadenza del settore pubblico sovvenzionato, dell’insistenza normativa e proibizionista del parlamento scozzese, delle amputazioni all’identità nazionale imposte dalla limitazione legislativa (sull’aborto, la Scozia più tradizionalista deve obbedire alle leggi di Londra). E di come gli stessi rapporti tra Scozia e Inghilterra diverrebbero più rilassati, sinceri e sereni da entrambe le parti, superato il presente stato di subordinazione e frustrazione. “Se mi chiedessero quale cosa più di ogni altra rende la Scozia diversa direi la sua cultura calvinista. Certo, la religione è in declino, la cultura si è annacquata e la Scozia non è un paese meno edonista delle altre nazioni dell’Occidente. Ma date un’occhiata a Gordon Brown. Ciò che più gli ha impedito di rimpiazzare Tony Blair finora è il suo non essere inglese e quella tenebra presbiteriana che lo circonda: la sua austerità, il suo moralismo, la sua fretta di intervenire, la sua intolleranza del dissenso”.

“Come fai a sapere se un aereo atterrato a Heathrow veniva dalla Scozia? Semplice: quando spenge i motori senti ancora quel borbottio”, (barzelletta inglese).

I più spaventati dalla situazione sono i leader labouristi. In ballo innanzitutto c’è un dettaglio personale. Gordon Brown, l’eterno promesso sposo, prossimo primo ministro britannico appena quel dannato Tony Blair si levasse di torno, è scozzese. Stando alle ultime garanzie date da Blair, la successione potrebbbe avvenire entro il prossimo settembre. Fate i conti: Brown potrebbe non fare in tempo a sedersi alla scrivania di Downing Street, e gli starebbe già scappando una gamba della sedia. La sua gamba. Passerebbe alla storia come lo scozzese che si perse la Scozia.
Ma c’è una questione meno simbolica e più concreta che ha spinto tutti i maggiorenti del partito a precipitarsi terrorizzati al congresso del Labour scozzese il mese scorso per eccitare l’attivismo antiseparatista: “il nazionalismo è la moneta più bassa della politica, è la politica della lamentela”, ha detto Tony Blair. “Fa il male dell’economia e quello della solidarietà tra i paesi del mondo”, ha proseguito Brown. Il fatto è che i collegi scozzesi danno al parlamento di Westminster 41 deputati labouristi, 12 liberaldemocratici e 1 deputato tory. Con l’aria che tira intorno alle prossime elezioni britanniche (da tenersi tra il 2009 e il 2010) e la resurrezione dei tories guidati dal giovane Cameron, partire da un handicap di meno quaranta prima ancora di votare è una prospettiva che toglierebbe il sonno a chiunque. (Circola una battuta attribuita a un deputato inglese che avrebbe chiesto perché gli scozzesi abbiano voluto un loro parlamento “quando comandano nel nostro”).
“Ma il pericolo maggiore per il labour in generale e per Gordon Brown in particolare potrebbe essere non tanto una precipitosa fine ufficiale dell’Unione, ma un crescente divario di solidarietà tra Inghilterra e Scozia. Grazie alla legge asimmetrica (o iniqua) sulla devolution voluta dal labour, i deputati scozzesi a Westminster possono votare leggi su materie come la salute e la scuola che non hanno alcun riflesso sui loro collegi. Con la maggioranza che ha, è solo grazie ai fedeli scozzesi che il governo può portare a casa l’approvazione di molte parti del suo programma. Molti deputati inglesi pensano che su queste cose dovrebbero votare solo i deputati inglesi. Un governo scozzese separatista aggraverebbe queste tensioni e metterebbe in discussione la legittimità di un Regno Unito guidato da uno scozzese e sostenuto in parlamento dagli scozzesi” (Bagehot, The Economist)

“Well my heart’s in the Highlands wherever I roam/that’s where I’ll be when I get called home”, (Bob Dylan, Highlands).
“Il grande Bob Dylan ha speso 2,2 milioni di sterline per una casa nelle Highlands. La vecchia superstar ha comprato un lussuoso rifugio assieme al fratello David. Dylan aveva passato già una settimana a Aultimore House, all’ombra dei Cairngorms, vicino al villaggio di Nethy Bridge. La casa, costruita all’inizio del ventesimo secolo, ha dieci camere da letto ed è considerata una delle più belle case Edoardiane in Scozia”, (Glasgow Daily Record, 17 gennaio 2007)

L’incongruità della legge sulla devolution è diventata nota nel dibattito politico come “West Lothian question”, da quando fu sollevata in parlamento da un deputato di quel collegio: il paradosso è che un deputato scozzese eletto a Westminster non può intervenire su molte questioni che riguardano il suo collegio (che la legge affida al parlamento scozzese) mentre ha voce e voto in capitolo su ciò che riguarda gli altri collegi britannici e solo quelli. E naturalmente non vale il viceversa: un deputato inglese non decide ciò che succederà in materia di sanità in Scozia (il suo collega scozzese invece vota sulla sanità in Inghilterra). Un sondaggio dei giorni scorsi ha dato la maggioranza dei cittadini britannici favorevole a un parlamento nazionale anche per l’Inghilterra.
“Adesso c’è una possibilità che uno scozzese mi governi. Uno scozzese che viene da un collegio in cui il mio deputato, quello che ho votato ed eletto, non ha alcuna voce in capitolo. E a questo problema c’è una soluzione, che mi suggerisce il mio amico Sean: date alla Scozia la sua indipendenza, e che Gordon Brown sia il primo ministro della Scozia”, (Michael Caine).

I sei deputati dell’SNP al parlamento britannico si sono finora astenuti dal voto – pur avendone diritto come tutti gli eletti nei collegi scozzesi – su tutte le materie per le quali la devolution affida indipendenza legislativa alla Scozia.

Al centro di tutto, naturalmente, c’è una questione di soldi. Malgrado su internet si trovi il folklore dei Braveheart e qualche pagliacciata equivalente al nostro Dio Po, la leadership del partito nazionalista scozzese ha idee chiare e concrete sul futuro della Scozia, al passo con i tempi. Oggi la Scozia riceve un fiume di contributi statali per la sua economia: 25 miliardi di sterline. La spesa pubblica pro capite in Scozia è superiore del 30% a quella del resto del Regno Unito. Molti inglesi farebbero volentieri a meno di darglieli, questi soldi. Molti osservatori sostengono che l’economia scozzese possa svilupparsi e modernizzarsi solo senza questi contributi. In Scozia, però, c’è chi teme di rimanere al verde e che solo una politica di tagli possa permettere alla Scozia di camminare da sola, ora che delle acciaierie, dei cantieri navali e delle miniere sovvenzionate non è rimasto quasi più niente e il grosso dei soldi va nel settore pubblico. E i leader labouristi a Londra giocano su questo. “Separati dalla Gran Bretagna resterete al verde”, vanno dicendo alla gran massa degli scozzesi impiegati negli enti pubblici o beneficiati dal welfare nazionale: vedete quindi chi votare, a maggio.

“Penso che la verità sia che se la Scozia proponesse davvero un referendum per l’indipendenza, ci troveremmo in una situazione di enorme incertezza e instabilità. Non posso credere che qualcuno lo voglia. Anche solo la prospettiva di una cosa del genere danneggerebbe la fiducia dell’economia. Sarebbe da pazzi escludere la Scozia dal Regno Unito”, (Tony Blair parlando in occasione della ricorrenza della firma degli Acts of Union, lo scorso 17 gennaio)

“La Scozia ha un surplus di 600 milioni di sterline quest’anno, paragonato a un deficit del Regno Unito di 40 miliardi. Con l’indipendenza non ci saranno tagli, ma di sicuro non sprecheremo i nostri soldi su nuove armi nucleari o per la guerra in Iraq!” (Alex Salmond, leader del Partito Nazionalista Scozzese)

Alex Salmond ha 52 anni, un anno meno di Tony Blair. Però ha un’aria meno giovanile e meno affascinante: sembra piuttosto il vostro funzionario di banca in attesa della pensione, o l’ispettore di polizia di certi vecchi film. È rotondetto, col faccione, capelli che se ne stanno andando e un imbarazzante tentativo di riporto che in certe giornate scozzesi di vento prende vita propria. Mentre Tony Blair guidava la Gran Bretagna verso la modernità con tutto il suo carisma e la novità della sua politica, Salmond – anche lui uomo di sinistra – cercava di frenare e trattenere la sua Scozia in tempi più lenti e meno arditi. Il suo partito, lo Scottish National Party, ha ottenuto nel 1997 la devolution per la Scozia e nel 1999 il primo parlamento scozzese autonomo. Per il mondo, e per gli inglesi sembrò un punto di arrivo, volenti o nolenti. Salmond lasciò la guida del partito, ma dopo qualche anno ci ripensò: “sono tornato per diventare il Primo Ministro scozzese”. I suoi modelli sono i piccoli paesi europei dalle ricche economie: la Norvegia, l’Irlanda, l’Estonia, l’Islanda, la recente crescita della Slovacchia. A chi gli ricorda le accezioni peggiori dei nazionalismi, risponde che tra la Scozia che ha in mente e la Gran Bretagna che invade l’Iraq la più pericolosa è la seconda.
Ve l’ho detto, è uno di sinistra.

“Se mi chiedete se abbiamo abbandonato gli scozzesi, non vorrei sembrare incline all’autoimmolazione, ma la risposta è sì: i nazionalisti scozzesi – la più grossa banda di opportunisti politici -occupano un’area politica che dovrebbe essere la patria dei conservatori, e questo è molto frustrante”, David Cameron, leader dei conservatori britannici.

Torniamo ai soldi. Con i suoi 79mila chilometri quadrati e tutte le sue isolette la Scozia si vuole portare via anche tutto il mare intorno. Il mare intorno è pieno di buchi. In fondo ai buchi c’è il petrolio. “Quali contributi? Forse non ve ne siete accorti, ma non è l’Inghilterra a sovvenzionare la Scozia, quanto il contrario. Le cifre delle sovvenzioni non tengono in conto i guadagni britannici dai pozzi scozzesi nel mare del Nord. Siamo in credito da trent’anni”, dice Salmond.
“L’SNP vuole giocare il futuro della Scozia sul prezzo del greggio. Queste entrate sono notoriamente volatili, in calo, e secondo le previsioni per il 2030 dovrebbero essersi esaurite. In realtà in una Scozia indipendente tutti i ricavi del petrolio sarebbero assorbiti dal buco che resterebbe abolendo il dividendo dell’unione, senza contare i costi aggiuntivi dovuti ai programmi dell’SNP di ridurre le imposte sulle società e sugli utili delle imprese e abolire l’imposta locale sugli immobili. E inoltre ci sarebbero le spese per la creazione di un nuovo stato. I desideri non sostituiscono i fatti”, (Wendy Alexander, deputato labourista al parlamento scozzese, The Financial Times, traduzione di Internazionale).

“Il dibattito raggelerà anche le classi politiche, ma arriva a stento alla porta del pub. In poche parole, abbiamo smesso di preoccuparcene. Una Scozia libera? Facciano, se lo vogliono. Un’Irlanda unita? E perché no? Il mondo è diventato più docile”, (Peter Preston, The Guardian).
“Non perderei il sonno se gli scozzesi votassero per annullare l’unione del 1707. L’indipendenza non significherebbe la fine del Regno Unito: Scozia e Inghilterra condividevano solo il monarca già prima del 1707, come il Canada e la Gran Bretagna oggi. Se ci riesce l’est europeo, a gestire le divisioni, possiamo riuscirci anche noi”, (Simon Jenkins, The Guardian).

L’anno scorso esplose la questione dei Mondiali di calcio. Per la seconda volta consecutiva l’Inghilterra si era qualificata e la Scozia no. E nel frattempo la coscienza indipendentista era cresciuta assai (Scozia e Inghilterra sono le due nazionali di calcio più antiche del mondo: debuttarono con uno zero a zero a Glasgow nel 1872). Gli scozzesi si divisero: il dibattito se tifare o no per l’Inghilterra occupò i giornali per tutta la durata dei mondiali. Molti si spinsero ad acquistare bandiere della Nigeria, della Svezia o dell’Argentina. La birra Tennants diffuse delle pubblicità in cui suggeriva ai tifosi scozzesi gli slogan per tifare nelle lingue degli avversari dell’Inghilterra. “Con tutti i soldi che gli diamo”, ruminavano gli inglesi.

“Per consentire alle minoranze di autodeterminare la propria indipendenza la Gran Bretagna è andata in guerra in Kosovo”, (Simon Jenkins, The Guardian).

Come è chiaro a questo punto, Salmond non condivide molto della politica internazionale britannica, in particolare per quanto riguarda le sintonie con gli Stati Uniti. Oltre alle drastiche critiche nei confronti della guerra in Iraq e delle spese militari, ha fatto capire che riguardo alla stessa permanenza nella NATO il suo modello sarebbe la Finlandia non allineata. A Washington, appena trovano un attimo per preoccuparsene, cominceranno a preoccuparsene.

Giovedì scorso David Cameron ha di fatto iniziato la campagna elettorale scozzese del suo partito, con una riunione dei leaders locali a Edinburgo. Molti dubitano che la rinascita del partito conservatore in Inghilterra possa avere dei riflessi sensibili sulle elezioni scozzesi di maggio: a Holyrood (la Westminster di Edinburgo) i tories hanno oggi appena 18 deputati su 129. Lo scenario più probabile suggerito dai sondaggi è che l’SNP diventi il primo partito in competizione con il Labour, e debba trovare il modo di allearsi con i liberaldemocratici per avere la maggioranza per governare. Ma i liberaldemocratici non vogliono sentir parlare di referendum o indipendenza. Su questo fronte sono invece più disponibili altri piccoli partiti, a cominciare dai verdi. Insomma, anche se i sondaggi confermassero la vittoria dei nazionalisti, la strada verso la Scozia indipendente sarebbe ancora tortuosa, e le inclinazioni popolari in questo senso vanno e vengono, come abbiamo visto. Anche soli due anni di insoddisfazione per la maggioranza in parlamento potrebbero capovolgere le simpatie degli scozzesi. Dipenderà anche molto da quanto gli inglesi si mostreranno desiderosi di trattenerli.

“Il deputato del South Suffolk Tim Yeo ha proposto una nuova legge per il risparmio energetico che prevede di avanzare le lancette degli orologi di un’ora sia d’estate che d’inverno. La proposta ha ricevuto molti sostegni ma anche molte obiezioni. La critica principale è che secondo Yeo sulla materia dovrebbero decidere indipendentemente e separatamente Scozia, Galles, Irlanda del Nord e Inghilterra. Se Scozia e Inghilterra votassero diversamente, questo potrebbe generare il caos nelle regioni di confine. Il deputato scozzese del collegio di Roxburghe e Berwickshire, Euan Robson, ha definito l’idea assurda e ha sottolineato i problemi che ne deriverebbero in mille occasioni quotidiane come le consegne postali, gli orari dei bus e dei treni, i viaggi dei pendolari”, (Berwick Today, 18 gennaio 2007).

“Non sei fiero di essere scozzese?”
“Essere scozzese è una merda. Siamo gli sfigati degli sfigati. La feccia della terra fottuta. I più disgraziati, miserabili servi che siano mai stati cagati sulla civiltà. Molti odiano gli inglesi. Io no. Sono solo dei segaioli. Ecco: noi siamo quelli che stanno sotto i segaioli. Non abbiamo nemmeno qualcuno decente che ci comandi. Stiamo sotto a dei poveri stronzi. È una situazione di merda, Tommy, e nessuna ventata di aria fresca cambierà un fottuto nulla”
, (Trainspotting)

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