Due storie uguali.
Camilla Baresani scrive sul Sole24Ore che la cotoletta del ristorante di Dolce e Gabbana fa schifo. Loro ritirano la pubblicità al Sole24Ore (“dobbiamo difenderci”) e insultano la Baresani. Il Sole24Ore pubblica un’altra recensione, favorevole al ristorante, ma il direttore De Bortoli manda i due a quel paese e rincara la dose: fanno schifo pure i loro vestiti.
Cathy Horyn del New York Times parla male di un paio di pantaloni di Armani, e lui non la fa entrare alla sua sfilata, mandandogliene a dire di ogni. I colleghi della Horyn protestano, “la libertà di informare…”.
Hanno tutti ragione e tutti torto. Baresani e Haines hanno tutto il diritto di scrivere quello che vogliono e pensano, come Dolce, Gabbana e Armani hanno tutto il diritto di scegliere cosa fare dei propri investimenti e dei propri inviti. Se i secondi si sono convinti di essere i re del mondo, la colpa è dei giornali e dei giornalisti da sfilata: non venissero a lamentarsi quando coloro a cui hanno leccato i piedi per decenni li prendono a calci.
E nessuno nei giornali protesti contro il ricatto degli investimenti pubblicitari operato da Dolce e Gabbana: questo ricatto esiste già, da tempo, in ogni giornale. La condiscendenza nei confronti dell’inserzionista, portata fino alla marchetta vera e propria, non l’hanno chiesta ieri Dolce e Gabbana: c’è da un pezzo. Bisognava pensarci prima: ora si può solo rimediare con una recensione benevolente, uno sconto sulle tariffe, un complimento bene assestato…
Parliamo d’altro, va’
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