Il Big Mac, l’ammiraglia dell’ormai ricchissimo menu di panini e annessi di McDonald’s, ha compiuto 40 anni, e in America lo celebrano persino con un museo. Piaccia o no, è stato uno dei veicoli principali – non solo simbolicamente – della rapidissima trasformazione del nostro rapporto con il mondo e le distanze geografiche: il nostro di noi occidentali ricchi. Come l’inter-rail, come gli zaini, come l’inglese, il Big Mac e la sua cultura hanno accompagnato e agevolato la sensazionale trasformazione che ha reso le ultime generazioni abitanti del mondo, quando le precedenti vivevano invece come occasioni elitarie e spericolate anche un solo viaggio intercontinentale in una vita. Riconoscere qualcosa di familiare in un posto estraneo aiuta ad adattarsi anche alle differenze (senza esagerare, che poi passate il tempo nelle tremende pizzerie di Miami, lazzaroni).
Per queste ragioni, uno poi reagisce con qualche fastidio quando gli ideologi della ipercorrettezza alimentare o i tutori della caciottina di san Teodoro vogliono insegnargli che il Big Mac è il male assoluto. Le cose sono più complesse, e il male assoluto sta solo nelle favole o nelle demagogie. E però, proprio perché le cose sono complesse, non si possono eludere le responsabilità della cultura del fast food nell’aggravamento del problema dell’obesità nei paesi ricchi e nello sfruttamento delle risorse nei paesi poveri. Quindi, se proprio avete bisogno di prendere una posizione netta e facile, sul Big Mac, l’unica è prenderla dal lato più semplice: è buono, o è cattivo? (Buono, buono: slurp).
Gazzetta dello Sport
Il Panino Democratico
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