Delle molte cose che si sono scritte su Mario Capecchi, che questa settimana ha vinto il Nobel per la medicina grazie alle sue ricerche sulle cellule embrionali, l’articolo che chiudeva il settimanale Time era il più equilibrato ed emozionante. Spiegava quanto la storia di Capecchi – sopravvissuto a quattro anni di guerra da orfano di padre e con la madre a Dachau – fosse insieme un cliché e il suo opposto: quello per cui si possono raggiungere grandi traguardi anche malgrado forti avversità, e quello per cui proprio le avversità rendono forti e capaci di grandi traguardi. La madre di Capecchi lo ritrovò a guerra finita: lui aveva nove anni ed era in ospedale. Lo prese con sé e partirono per gli Stati Uniti, via da tutto quello che gli era toccato in Italia fino ad allora. Lui racconta che arrivò a Ellis Island, luogo di registrazione degli immigrati, e il giorno dopo era già in una scuola americana.
La storia di Capecchi è formidabile per molti aspetti. Due giorni prima del Nobel aveva compiuto settant’anni. Sessantuno ne ha vissuti negli Stati Uniti: quello è il suo paese, come indicato sul sito ufficiale del Nobel e sui suoi documenti, ed è il posto dove la sua vita è diventata miracolosamente una vita di cui essere felici. Capecchi non parla più l’italiano, e ha raccontato a Time che di sua figlia a volte si chiede se qualche colpo o qualche difficoltà in più non la renderebbero più forte. Ma poi pensa a se stesso e a quello che ha passato e preferisce proteggerla.
E non abbiamo parlato delle cose che Capecchi ha studiato e scoperto, e che gli hanno fatto vincere il Nobel. Né dei due colleghi di Capecchi che lo hanno ricevuto assieme lui. Quindi c’era l’imbarazzo della scelta per dare la notizia, no?
Ma tv e giornali, da noi, hanno titolato tutti più o meno così: a un italiano il Nobel per la medicina.
Gazzetta dello Sport
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