So lonely

“Quando c’erano i cavalli, non si arrivava mai”, cantava Lucio Dalla nel 1984. Adesso non ci sono più i cavalli e andiamo in ogni angolo del mondo senza sapere cosa ci sta succedendo, su quali terre e mari voliamo, e del viaggio ricorderemo solo il film che davano sul volo e l’attesa per i bagagli in questo o quell’aeroporto ermeticamente sigillato. Ancora pochi decenni fa, il viaggio conobbe un culto e una riscoperta notevoli: si mitizzava la strada, l’essere cittadini del mondo, sacchi a pelo e le esperienze sul terreno. Da quell’epoca lì nacque il culto per alcuni compagni di viaggio essenziali, come il sacco a pelo, lo zaino, e la guida turistica non più elenco di date e opere d’arte ma soprattutto manuale di come cavarsela e di cosa godere in giro per il mondo. La più popolare di quel tipo di guide divenne presto la Lonely Planet, inventata da una coppia di viaggiatori inglesi, Maureen e Tony Wheeler, che ora l’hanno venduta per un sacco di soldi a una società assai più istituzionale e solenne come la BBC. La notizia dell’altroieri, è che persino i militari americani si sono affidati a una guida Lonely Planet (vecchia di dieci anni, tra l’altro) per pianificare l’invasione dell’Iraq. Il che dimostra ancora di più lo scollamento tra la conoscenza dei luoghi che visitiamo – o invadiamo – e il modo in cui li percepiamo, vicini vicini. Google Earth e i navigatori satellitari ci suggeriscono di poter tener d’occhio un mondo piccolo piccolo, e intanto ci guidano a destinazione alienandoci ancora di più dal percorso: “tra-cento-metri-svoltare-a-destra”. Anche nei viaggi, il futuro non sarà né regolatissimo e disumano né caotico e anarchico: sarà incasinato dai computer e dalle vecchie guide.

Gazzetta dello Sport

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