Cosa mi metto oggi?

Ieri sera Franca Sozzani era alle Invasioni Barbariche e si è parlato dei modi torbidi in cui funzionerebbero i rapporti tra la moda e i giornali di moda, a partire da una puntata di Report che aveva mosso alcune accuse in questo senso. Sozzani ha fatto quella che sono-tutte-balle, e per quanto riguarda Vogue è probabile abbia ragione: quello è un giornale di tale potere e forza che probabilmente si può permettere un’indipendenza più unica che rara. Le accuse poi di avere affidato una copertina a suo figlio fotografo sono sinceramente ridicole: un giornale è un’impresa economica privata, e se va bene alla Condé Nast va bene a tutti.

Tornando però alle relazioni indissolubili tra pubblicità e contenuti del giornale, che ci siano e sfacciate è noto ed evidente a chiunque. Ma lo scandalo eventuale nasce da un equivoco: ovvero che nel caso dei giornali di moda si debba parlare di informazione, o di rispetto dei lettori, o cose così. Sono cataloghi. Sono oggetti e imprese spesso belle e utili, ma non hanno niente a che fare col giornalismo tradizionalmente inteso. Sono un unico grande business con la moda stessa: vendere vestiti, borsette e giornali. E, ripeto, è inevitabile che sia così: non esiste nessun altro settore a cui si dedica la stampa specializzate e non che sia per definizione così indipendente da criteri di qualità, realtà, verità, rilevanza. È la moda, non a caso. Ciò che fa notizia è legato alla scelta di poche persone sparse per il mondo (“è il pubblico che decide e orienta”, fa davvero ridere). Quindi finiamola di fare gli scandalizzati, e la finiscano gli impiegati nei giornali di moda di difendersi: il loro lavoro, nobilissimo, è far vendere vestiti e giornali. Lo fanno piuttosto bene, anche barattando servizi per inserzioni. I codici etici lasciamoli a cose più delicate

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