Celebrazioni sessantottine

Questo avvenne quasi vent’anni fa, un giorno che ero in una biblioteca di Pisa a cercare delle cose per la tesi di laurea. Il posto mi piaceva, ci andavo da sempre, è accanto al mio liceo: una di quelle biblioteche dove ti puoi fare abbastanza i fatti tuoi, muoverti tra gli scaffali, aprire i volumi, rimetterli a posto, fare fotocopie, senza dover riempire mille moduli o chiedere aiuto a commessi diffidenti. E non c’era internet, allora. Quel giorno, mentre passavo davanti agli archivi dei quotidiani, mi ricordai di un racconto di mio padre che da ragazzo mi inorgogliva: perché parlava di calcio, in un certo senso, e da ragazzi i racconti calcistici sono molto più belli di quelli politici.

La storia era questa: campionato 1968-69, il Pisa va in serie A per la prima volta nella sua storia. Dopo la sconfitta inaugurale a Torino (gol di Emiliano Mondonico), mezza città aspetta l’appuntamento della prima partita in casa, con la Roma ospite dell’Arena Garibaldi. L’altra mezza è coinvolta nelle contestazioni e i fermenti del Sessantotto pisano. Le due cose si saldano nella testa di qualcuno con più fantasia degli altri, fattostà che il sabato notte della vigilia un gruppetto di quattro o cinque giovani – operai della Saint Gobain e studenti universitari – si intrufola nello stadio con il progetto di una clamorosa azione dimostrativa (il primo progetto, piantare cavolfiori e ortaggi sul prato di piazza dei Miracoli, era stato accantonato). Il gruppo entra in campo sotto la luce della luna piena e raggiunge una delle porte, che io ho sempre immaginato quella della curva Sud. Mettono mano agli attrezzi e cominciano a lavorare. Cominciano a segare i pali. Gli attrezzi sono poverelli e ci mettono un po’. Nel cuore della notte, stanchi e sudati, si imbattono nell’anima di ferro all’interno dei pali, ostile agli strumenti. Non si danno per vinti e cominciano quindi a scavare attorno alle basi, per poter svellere la porta del terreno. Una volta finito, passeranno all’altra, quella sotto la curva Nord. Ma dopo un po’ raggiungono i grossi blocchi di cemento a cui sono ancorati i pali che li costringono a scavare molto più a lungo. Un paio di loro crollano, e se ne vanno a casa: gli altri riescono a svellere tutti i pali e a issare la porta fuori dalle fosse, ma è quasi l’alba. La trascinano un po’ esausti e un po’ esilarati attraverso lo stadio e fuori dai cancelli, e la scaraventano in un fosso poco lontano. Una, basta. E se ne vanno a dormire.

Come ho detto, questa storia da bambino mi piaceva un sacco. Che mio padre avesse qualcosa a che fare con un evento calcistico mi pareva fantastico, malgrado il vincolo di segretezza che mi ero autoimposto e che mi impediva di vantarmi con i miei amici: era un’avventura troppo ardita e rischiosa da poter essere spifferata in giro, pensavo. Secondo il suo racconto, a causa della loro impresa la partita più attesa della storia di Pisa era cominciata in ritardo per consentire l’arrivo e l’installazione di una nuova porta. Così, quel giorno in biblioteca, me ne ricordai e affrontai l’archivio della Nazione. Cerco un po’ nei microfilm. E trovo questo:

LA PORTA “RAPITA”

Il furto di una porta del campo sportivo dev’essere una cosa unica negli annali della criminologia: ma ieri è successo anche questo. Ignoti, penetrati di soppiatto nell’intervallo tra i due turni di operai che ancora lavorano alla curva sud dell’Arena Garibaldi, hanno tolto, pali, traversa e supporti di ferro, e hanno gettato il tutto nel fosso del Marmigliaio.

Tra l’una e mezzo e le quattro e mezzo di notte, quando non c’era nessun operaio, il gruppetto di persone (dovevano per forza essere più d’uno per effettuare il colpo) è penetrato nel campo sportivo, e si è subito diretto alla porta del lato nord (mi ero sbagliato!, nda), cominciando a segare alla base uno dei pali. Quest’operazione è stata interrotta quando la sega ha incontrato l’“anima” in ferro del palo. Allora i pali ed i supporti posteriori sono stati scavati fino alla base di cemento cui sono ancorati mediante grossi bulloni; la porta è stata sbullonata, portata via a braccia e gettata nel fosso del Marmigliaio.

È stato il custode del campo, alle sette del mattino, ad accorgersi della sparizione. Sono stati raggiunti per telefono il presidente Donati, gli altri dirigenti, i quali sono subito accorsi. Dalla questura sono intervenuti funzionari ed agenti e poi anche i carabinieri. La porta è stata cercata dappertutto, finalmente, qualcuno ha visto qualcosa di bianco spuntare dal fosso del Marmigliaio: era la porta, che è stata ripescata. Gli operai hanno faticato parecchio a rimetter tutto a posto (i lavori erano seguiti dall’assessore allo sport avvocato Supino) ma ce l’hanno fatta entro mezzogiorno, mentre sugli spalti cominciavano a prender posto i tifosi.

Restano adesso da spiegare i motivi del gesto. Si è subito parlato – ma, ripetiamo, senza che esista alcunché che possa giustificare l’attribuzione – del “Potere Operaio”. I giovani estremisti avrebbero fatto sparire la porta con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica nazionale, mediante il gesto clamoroso, sulla situazione economica della città. Gli operai non sarebbero stati, si diceva ancora, perché quelli della Marzotto avevano l’ingresso gratuito, e quelli della Saint Gobain il permesso di diffondere un volantino sulla loro situazione.

Qualcuno ha anche parlato di un possibile scherzo (di pessimo gusto, per la verità) di qualche sportivo livornese; ma la voce ha trovato scarso credito. La polizia comunque indaga, anche perché la società, con tutta probabilità, sporgerà querela contro ignoti per danneggiamento. Il commendator Donati ha espresso la propria indignazione per l’accaduto, definendo l’azione “inconcepibile”.


In testa all’articolo stava la foto di alcuni volonterosi che ricostruiscono la porta sotto lo sguardo attento di un signore distinto e pelato, forse l’assessore Supino, forse il povero e incredulo commendator Donati. A cui, in quel momento in biblioteca, andò tutta la mia colpevole solidarietà: aveva anche concesso l’ingresso gratuito agli operai della Marzotto e veniva ripagato così.

Anni dopo raccolsi altre testimonianze. La ricostruzione della Nazione era inesatta: la partita era in effetti cominciata in ritardo e la porta era stata ritrovata solo quando ne stava già arrivando una nuova. Ma lì per lì, in biblioteca, il pensiero che mio padre avesse abbellito il racconto per divertire me e mio fratello mi commosse. La storia della Nazione era poi ancora più bella, con l’accorrere di funzionari, dirigenti, agenti, carabinieri, assessori, e la pista livornese. Per non parlare dell’immagine del custode che spiega per telefono al presidente quello che sta vedendo, magari stropicciandosi gli occhi nel torpore del mattino.

Il Pisa perse, comunque. Due a uno.

Vanity Fair

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