Mark Everett è l’anima di una stimata rock band americana – gli Eels – che ha apena scritto un libro sulla sua vita e sulla sua famiglia, entrambe piuttosto incasinate. A un certo punto si chiede come mai da ragazzino gli piacessero tanto Elvis e John Lennon, idoli di una generazione precedente la sua, e si risponde riflettendo che nelle loro canzoni si sentivano sempre un’insicurezza, una fatica di vivere e trovarsi, che sono sempre più rare tra i cantanti e le band di successo negli ultmi decenni, tutti sempre concentrati a mostrare di essere cool, sicuri di sé, col mondo in pugno.
La storia di Amy Winehouse è impressionante anche per questo: perché sembrava non fossero più tempi di rockstar belle e dannate, di successi e tormenti assieme, di sesso-droga-e-rock’n’roll. Il personaggio più popolare del rock in queste settimane è un biondino perbene – Chris Martin dei Coldplay – che sta felicemente con un’altra biondina da anni (Gwyneth Paltrow) e non si è mai messo in un guaio uno. Per dire.
E poi arriva Amy, e la fotografano sempre più strafatta, e non va alle premiazioni, e abbandona i concerti, e la arrestano, e intanto vende milioni di dischi ma non sembra in grado di goderne.
Ora i suoi medici le hanno detto che rischia la vita, a continuare così. È quello che rischiano tutti quelli che hanno a che fare intensamente con le droghe pesanti, e sarebbe sciocco pensare che sia un rischio da mondo del rock o per quelli dello spettacolo. Si esagera con la droga in ogni ambiente vicino alla ricchezza e al lusso, e anche in molti di quelli che ne sono lontani. Solo che non fa notizia, o non c’è un medico a dirtelo. E in giro è pieno di bella musica – compresa quella di Amy Winehouse – senza che ci sia bisogno del culto della dannazione e del tormento, come per Janis Joplin, Jeff Buckley o Kurt Cobain. E anzi, forse oggi non ci sarebbero più neanche i cultori.
Gazzetta dello Sport
My Amy
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