Non bastasse la lettera incazzatissima di Fassino, a convincermi che Repubblica l’ha fatta grossa è arrivata la spiegazione sugli specchi di D’Avanzo: che in sintesi sostiene che di fronte a una menzogna meglio rischiare di dirne altre mille piuttosto che tacere. E che loro lo sapevano che potevano esserci anche balle nel racconto di Tavaroli ma dovere-del-giornalista bla bla bla (e perché non l’avete scritto prima, che forse erano balle?). Con formule acrobatiche e totalmente distorcenti il ruolo del giornalismo come queste:
Non c’è dubbio che l’informazione sia e debba essere, per mestiere e dovere, un alimento di critica pubblica. C’è il giornalismo che pretende di ricostruire la verità. C’è un altro giornalismo che sa di non poter afferrare con una presa sicura l’intera storia che racconta. E’ un giornalismo consapevole di un limite e accetta di lavorare a una continua approssimazione della verità, cosciente che non saprà mai davvero che cos’è la verità, ma saprà che cos’è la menzogna. La indicherà ai suoi lettori.
Non ci appare la verità. Ci appare uno scenario più vicino alla realtà dello scandalo Telecom.