Se verrà la guerra marcondirondirondello

Mentre i giornali segnalano le preoccupazioni dei vertici militari italiani sull’inadeguato addestramento dei soldati – e ci si chiede addestramento per cosa, esattamente: fare la guerra o la polizia? – un dibattito in fase assai più avanzata sta prendendo sempre più spazio sulla stampa della maggiore potenza militare mondiale.  Cosa vogliamo farne, della nostra potenza militare? Cosa vogliamo farla diventare? A cosa ci servirà in futuro? Gli americani si stanno chiedendo questo genere di cose. È un dibattito che ribolle ormai da molto tempo sotto il livello della discussione politica generale, all’interno di think tank, accademie e riviste militari, ma che sta cominciando a radicarsi anche sui giornali maggiori.
Il mese scorso il mensile Atlantic Monthly – forse il miglior mensilie di attualità e politica del mondo, di inclinazione liberal – ha esposto la questione nel suo pezzo d’apertura, intitolato “La dottrina Petraeus”. La sintesi era questa: in Iraq le cose hanno cominciato a migliorare da quando il generale Petraeus ha investito la presenza militare americana in compiti di nation-building: costruzione di migliori rapporti con i civili, lavoro sulle infrastrutture, e preparazione al combattimento di guerriglia e atti di terrorismo più che di confronti bellici tradizionali. Questo temporaneo e parziale successo ha rafforzato i sostenitori – all’interno dellle forze armate statunitensi – di un’evoluzione del ruolo dei militari verso capacità e strutture di questo genere – “ingegneria sociale”, la chiamano – e verso l’idea di uno stato di “conflitto permanente” da affrontare con pazienza ed elasticità rispetto a situazioni mutevoli: gli Stati Uniti non devono più temere guerre di aggressione, ma instabilità politiche che si trasformino in minacce per i cittadini americani. “Comprare meno carri armati e imparare meglio le lingue e le culture”, si dice. L’abitudine a rapide vittorie ottenute tutte con la forza e la capacità di combattimento tradizionale è uscita assai stordita dalle fatiche irachene, e vi si è dimostrata inadeguata. L’Atlantic Monthly chiama i sostenitori di questo diverso approccio, i Crociati, e i Conservatori i loro oppositori.
I Conservatori dicono ai Crociati, per cominciare: l’ultima volta che abbiamo cercato di cambiare un’intera società, in Vietnam, ricordatevi com’è andata. Ma ricevono in risposta la tesi che fu proprio l’approccio sbagliato, tradizionale, a far fallire quell’intervento. E che le cose allora sarebbero migliorate dall’arrivo del generale Abrams al posto del pugno di ferro di Westmoreland, se non fosse che negli Stati Uniti ormai la continuazione della guerra in Vietnam era diventata impresentabile. Balle, insistono i Conservatori: quella guerra non si poteva vincere. E suggeriscono che il nuovo corso iracheno debba molto ad aver fatto circolare soldi sonanti tra gli iracheni, ex combattenti compresi, più che alla pretesa nuova strategia (ma secondo alcuni, il mettere a busta paga il nemico sta deliberatamente nella categoria “relazioni umane”). L’allarme dei Conservatori sostiene quindi che le capacità di combattimento dell’esercito americano si sarebbero già drammaticamente indebolite, con il prosperare delle nuove scuole di pensiero all’interno delle accademie militari, e che una guerra convenzionale potrebbe evidenziare pesantemente queste inadeguatezze. Quello che è successo tra Russia e Georgia, e le minacce di Iran e Nord Corea, dicono, dovrebbero bastare a non trattare le ipotesi di eserciti in conflitto come una cosa del passato.
Nella discussione è intervenuto la settimana scorsa il Ministro della Difesa Robert Gates. Già sostenitore dei nuovi approcci militari cari all’amministrazione Bush, Gates è sembrato però questa volta più preoccupato del presente che del futuro. In un discorso alla National Defense University ha ricordato anche lui il caso della guerra in Georgia, e la necessità di non trascurare la preparazione convenzionale e il necessario supporto di armi e tecnologia bellica: ma Gates si è lamentato che la burocrazia del Pentagono non sia elastica abbastanza da capire le diverse necessità militari di una guerra combattuta nei quartieri di Baghdad piuttosto che con i bombardieri dal cielo.
L’affermarsi della nuova dottrina è infine arrivato ufficialmente su un manuale di operazioni dell’Esercito, largamente citato in un articolo sul Washington Post di domenica, che riprendeva anche le altrettanto rivoluzionarie implicazioni politiche della scelta. Perché se è vero che intuitivamente un esercito che si occupi di nation building, rapporti con i civili, attività extra-belliche, suona più moderno e auspicabile di uno dedicato alla tradizionale obbedienza agli ordini di combattere, bombardare e vincere, le cose sono in realtà più complicate. Intanto, perché la prima scuola di pensiero corrisponde esattamente all’idea di “guerra permanente” implicata dalla dottrina Bush: insieme all’esportazione della democrazia e tutte quelle cose lì, che anche a volerle vedere col credito delle buone intenzioni si sono rivelate nell’esecuzione meno travolgenti del previsto. E poi perché prevede un’assunzione di responsabilità e di decisione strategica da parte dei militari sottraendola ai vertici politici. Che con tutto il discredito dei vertici politici, non è comunque mai una buona cosa.

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