Oggi è in libreria il libro che ha scritto mia moglie. È molto bello. Sono riuscito ad ottenerne un’anticipazione in esclusiva per Wittgenstein.
Mio fratello Micione dormiva sul televisore. Ogni tanto gli cadeva la coda davanti allo schermo: la mamma e Donatella urlavano a turno: «Micione, la coda!» e lui la tirava su. Poi si riaddormentava e gli ricadeva giù. Altro Micione la coda. E avanti così per tutta la sera. La coda di Micione, gatto tigrato a pelo lungo trovato da mia sorella davanti al portone di casa il 21 gennaio 1966, vissuto oltre vent’anni e considerato da tutti, da lui per primo, un componente umano della famiglia, era molto pelosa. Quando cadeva davanti allo schermo non si vedeva più niente. “La baronessa di Carini”, “Il tenente Sheridan”, “Nero Wolfe”, “Canzonissima”… tutti visti al ritmo di Micione la coda.
Un giorno il televisore si guastò e chiamammo un tecnico, che lo aprì per aggiustarlo. Ero piccola, ma ricordo come mi divertii quando ne estrasse una grossa palla di pelo e la mostrò perplesso alla mamma. nonostante ciò, nessuno si sarebbe mai sognato di impedire a Micione di dormire sul televisore, il suo posto preferito. Probabilmente l’aveva scelto perché era caldo, ma noi sostenevamo che fosse egocentrico e volesse stare al centro dell’attenzione. Micione la coda era come babbo la freccia. Quando il sabato da Ferrara andavamo in campagna a Castel San Pietro, nella villona ottocentesca dei nonni dove da piccolo-borghesi di città ci trasformavamo in signorotti di campagna, prendevamo due macchine. Il babbo davanti sulla Millecinque prima e la centoventiquattro poi, noi dietro con la mamma, sulla cinquecento prima e l’A112 poi. Prima della Millecinque c’era stata una Millecento e prima ancora una Topolino, ma io allora non ero nata, e i miei abitavano ancora a Bologna. Io da piccola ero buona, ma lagnosa: Donatella mi chiamava Gu-Gu, dal suono che facevo piangendo, e Melania, nel senso di Melania la lagna. Nei tragitti del sabato da Ferrara a Castello a metà strada minacciavo sempre di vomitare, allora per cercare di distrarmi lei mi faceva cantare e giocare, proprio come faccio io con mia figlia Emilia. A volte vomitavo lo stesso, altre dicevo che stavo per vomitare anche se non era vero, giusto per avere l’attenzione di mia sorella, che a quei tempi mi trattava sbrigativamente. Da bambina amava pistole e fucili e avrebbe preferito un fratello con cui giocare alla guerra a una sorellina paurosa e Melania come me.
Il babbo era lento e distratto: guidava a sessanta all’ora con il cappello in testa e dimenticava sempre la freccia accesa. E noi dietro a urlare babbo la freccia, e a sfanalare. «Se c’è la coda sulla via emilia vuol dire che davanti c’è lo zio vico» scherzavano i miei cugini. Un giorno mio cugino Lorenzo, ancora ragazzino, fermo al semaforo sulla via Emilia, notò un’auto che procedeva lentamente guidata da un signore con il cappello: guardando meglio vide che era proprio lo zio Vico e che nel sedile accanto aveva una capretta bianca e nera, e altre due sul sedile posteriore. Il babbo le stava portando a Castello dove riuscì a tenerle per qualche mese in giardino, finché la nonna Atala non lo obbligò a liberarsene perché le mangiavano gli oleandri. Quando il babbo morì e seguimmo il carro funebre da Ferrara a Castello, l’autista del carro dimenticò la freccia accesa per un gran tratto. noi dietro pensammo che era il babbo che ci strizzava l’occhio e diceva fatalità, una delle sue esclamazioni preferite. «Fatalità, ero a Montecatini e ho incontrato uno di Castello.» «Ho sognato mio fratello Fifo e, fatalità, oggi mi ha telefonato da Roma.»
Un’altra sua esclamazione frequente era son rimasto, per dire “sono rimasto colpito”, mentre l’invariabile risposta alla domanda «come stai, Vico?» era si ruzzola. E considerato che da anziano aveva una pancia alla Nero Wolfe, l’espressione faceva sorridere: ma penso la usasse già da ragazzo, quando ancora era magro stellato. Il babbo ha guidato ogni giorno per trent’anni lungo le strade dell’Emilia e del Veneto, spesso nella nebbia, spesso addormentandosi letteralmente al volante dopo le soste per il pranzo, ma non ha mai avuto un incidente. Andava così piano che anche se finiva fuori strada, e a volte è successo, faceva in tempo a svegliarsi e raddrizzare il volante. «Meglio arrivare mezz’ora dopo ma arrivare vivi» ripeteva, e dietro alla sua centoventiquattro grigia si formavano colonne, come dietro alle corriere sulle strade di montagna.