(pezzo destinato alla Gazzetta, poi travolto dalle esequie di Mike)
Ringo Starr entrò nei Beatles nel 1962, e allora i Beatles divennero quello che conosciamo. Quello stesso anno uscì “Love me do”, il loro primo singolo. Adesso siamo nel 2009, sono passati 47 anni, e la domanda dovrebbe essere: “perché ne stiamo ancora parlando?”. Ve la fate mai? È vero che in Italia siamo abituati a dedicare inesauribili attenzioni al passato, ma in questo caso la tendenza è mondiale. Come mai la semplice rimasterizzazione di canzoni che conosciamo benissimo suscita così tante attenzioni, soprattutto in tempi in cui la qualità delle riproduzioni e l’alta fedeltà hanno perso molto valore nell’ascolto della musica (a favore della trasportabilità e dell’accessibilità)? Ci sono due risposte ciniche, ma non bastano: una è la forza di un grande battage promozionale artificiale, e l’altra è la resistenza nelle redazioni dei giornali di una generazione che è cresciuta con i Beatles o con il loro mito. Ma non bastano, appunto: chiunque di noi ha esperienza di bambini che ancora si innamorano dei Beatles da bambini, anche senza rimasterizzazioni e videogames. Alla fine, forse si tratta delle due cose assieme: un mito inesauribile aiutato da canzoni imbattibili, e una società dedicata a perpetuarlo. Ne perpetua di peggiori, possiamo essere contenti.
(Non bastassero tutti gli altri, oggi alle 18 e 30 siamo a parlare dei Beatles pure io e Walter Veltroni, alla Feltrinelli di piazza Piemonte a Milano)