Sul New Yorker c’è un lungo ritratto di Paul Krugman, Nobel per l’economia l’anno scorso ed editorialista del New York Times. È un ritratto del New Yorker, e ho detto tutto: vi appassionerebbe anche se parlasse di Pupo. Ma ne segnalo tre cose che mi hanno incuriosito.
For the first twenty years of Krugman’s adult life, his world was divided not into left and right but into smart and stupid. “The great lesson was the low level of discussion,” he says of his time in Washington. “The then Secretary of the Treasury”—Donald Regan—“was not that bright”
In Italia c’è una reticenza a parlare dell’intelligenza delle persone come un valore o una dote notevole quale di fatto è, e il cui difetto in alcune persone crea delle conseguenze. A prenderla larga, questa reticenza sta nella stessa categoria dell’ipocrisia demagogica sul “pubblico non è stupido”, ma per questa volta la farò più breve. È come se indicare la maggiore o minore intelligenza di qualcuno – la minore soprattutto – implicasse una presunzione o un “chi sei tu per giudicare” di cui scandalizzarsi. Invece è normale: ci sono persone più intelligenti, e ci sono persone meno intelligenti. Magari non è educatissimo dirglielo in faccia, ma nell’analisi di ciò che fanno il dato è rilevante. Molto rilevante. Invece ne prescindiamo continuamente: mettiamo in conto nell’azione di politici, giornalisti, classi dirigenti varie, ogni possibile indagine e spiegazione, e mai quella più ovvia, che invece Krugman non ha remore a usare: “The then Secretary of the Treasury”—Donald Regan—“was not that bright”.
Con altrettanta e simile mancanza di ipocrisia e falso pudore su questo genere di cose, l’autrice del ritratto dice en passant una cosa sul libro di testo scolastico che i coniugi Krugman stanno scrivendo.
Even though they were doing it mostly for the money, they knew that, for the students who read it, their textbook might be the only time in their lives that they were exposed to proper economic thinking, which of course would have an influence on their political thinking.
“Anche se lo stanno scrivendo fondamentalmente per soldi”. Fantastico. Scrivono un libro per le scuole, con cui gli studenti dovranno imparare l’economia, e lo fanno “fondamentalmente per soldi”. Ovvio, banale, e come ovvio e banale è riportato: tanto che la notizia è invece nella frase successiva, che comunque lo fanno anche pensando un po’ all’interesse degli studenti. Ma immaginate un italiano di cui si dica senza nessuna riprovazione che sta facendo un lavoro simile fondamentalmente per soldi. Sarebbe una cosa orribilmente cinica e offensiva, da dire. “Anche se Eugenio Scalfari sta scrivendo le sue memorie per soldi, gli è caro anche lasciare qualche insegnamento alle giovani generazioni”.
E poi non so come giudicarla – se deprimente o consolatrice – ma mi sono segnato la frase conclusiva con cui un amico di Krugman parla di lui:
“If there is sadness in him at all, I think it is a tiny core of profound sadness of the kind that the Buddha understood—that we probably can’t use human rationality to make the world all better, and it would be really nice if we were able to.”