Il dibattito sulla funzione della pena e del carcere è antico, ricco e approfondito, ed è impossibile sintetizzarlo. Mi limito ad abbozzare alcuni concetti di cui mi sono convinto seguendolo lateralmente, e di cui ho scritto altre volte.
La funzione della pena deve essere di efficacia per la comunità e per chi la riceve: e che essa sia associata alla reclusione è una consolidata abitudine culturale e mentale, ma non ha nessun fondamento logico se non per le persone giudicate pericolose per gli altri.
Intendo quindi dire due cose: che tutto il repertorio di argomenti legati alla “punizione”, al “dover pagare” i propri sbagli, a un’idea di giustizia connessa a sterili attribuzioni di sofferenze è completamente privo di fondamento, per quanto istintivo e culturalmente radicato nei nostri pensieri da quando siamo bambini. In Italia tendiamo a privilegiare tutta la sfera di risarcimenti, scuse, errori da pagare, perdoni sui reali superamenti dei problemi: e il ruolo delle “vittime” nel dibattito pubblico è un accessorio di questa tendenza (un ulteriore accessorio, meno tollerabile, è il vittimismo: c’entra, ma è una questione complessa). Le pene non dovrebbero invece servire a “fare giustizia”, ma a migliorare le cose, come ogni scelta fatta dalle istituzioni pubbliche (naturalmente “fare giustizia”, e rendere serena la comunità su questo, può aiutare a migliorare le cose, ma in una misura molto minore di quella che le viene attribuita correntemente). In questo senso le loro – delle pene – funzioni primarie sono due: la “rieducazione” (diciamo), nel senso di tutte le pratiche che rendono meno probabile che il condannato voglia ripetere il reato, e la deterrenza, ovvero una sanzione che lo inibisca ulteriormente anche se lo volesse ripetere. Poi ci sono le pratiche che dovrebbero limitare le occasioni e le ragioni per cui i reati siano compiuti, ma queste sono pratiche politiche e culturali più ampie che non riguardano i singoli casi e i giudizi penali.
La seconda cosa è che l’associazione tra pena e carcere ha senso solo per le persone che siano pericolose per gli altri: è l’unica funzione che si attua logicamente con la reclusione, tutte le altre possono avere alternative altrettanto e più sensate, altrettanto e più efficaci, oltre che più giuste (giusto ed efficace si sovrappongono spesso, come in ogni buona idea di giustizia). Di fatto, oggi il carcere è la scelta più pigra e vile compiuta dalle nostre società rispetto a queste funzioni, e la pigrizia e la viltà delle nazioni si giudicano da quanto uso ne fanno, del carcere. In secondo luogo, da quanto si puliscono la coscienza di queste pigrizia e viltà con sistemi carcerari dignitosi e “umani”. Inutile dire quanto sia sporca e priva di qualsiasi tentativo di pulizia la coscienza dell’Italia su questo.
Corollario è che “abolire il carcere” non si può: perché esistono obiettivamente persone che sono – più o meno temporaneamente – pericolose per gli altri se si trovano in libertà, e su cui il lavoro di “rieducazione” (diciamo) è lungo e ostile. Sono una percentuale minima di coloro che stanno in carcere, ovviamente. E pongono un problema grosso al garantismo e ai rigori dei principi di civiltà: perché punire qualcuno per qualcosa che non ha fatto è una cosa difficile da sopportare per una società civile. Lo si fa ampiamente nella pratica, ma legittimarlo nella teoria è piuttosto preoccupante: per non dire dell’arbitrarietà (ulteriore, rispetto al già ampio arbitrio dei giudizi sui reati compiuti) della scelta su chi possa essere pericoloso e perché.
(Vale la pena – per capirsi ancora meglio – di segnalare anche la palese stupidità degli argomenti di chi di volta in volta contesta amnistie o indulti sostenendo che “si lasciano in libertà i criminali per le strade”: argomento che costringerebbe logicamente a chiedere che sia quindi buttata la chiave, visto che non si capisce quale diverso grado di pericolosità abbia una persona scarcerata per indulto da una scarcerata per estinzione della pena un anno o due dopo, in assenza di qualunque mutamento delle condizioni che l’hanno portata in carcere).
Ho scritto tutto questo – e chiedo scusa agli esperti di cose di carcere per la approssimazione – per non rendere troppo superficiale e incompleta la segnalazione di una cosa che ho scoperto ieri sullo Spiegel, e che riguarda l’ultimo punto: l’uso della reclusione per ragioni di “sicurezza” della comunità. In Germania, leggo, è ufficialmente codificato: si chiama “detenzione preventiva” (non c’entra con la nostra carcerazione preventiva, che malgrado le intenzioni quasi sempre si può chiamare così solo perché “viene prima”; quella tedesca “previene”) e discende dalla decisione di un giudice che allo scadere di una pena decida che il detenuto è tuttora pericoloso per gli altri e quindi deve essere mantenuto in carcere (negli Stati Uniti e in Italia la funzione si applica, ma con un’impostazione ribaltata: che il giudice possa farti uscire se non sei più pericoloso, ed è una differenza concettuale notevole e di ampie implicazioni).
Come mostra il grafico dello Spiegel, i detenuti a cui questa misura è stata applicata nel 2009 sono poco più di 500, e per metà sono colpevoli di reati sessuali. Alcuni di loro sono stati liberati nei mesi scorsi in conseguenza di una sentenza della Corte di Strasburgo (in Germania le rispettano, le sentenze di Strasburgo, evidentemente).
La storia è questa: negli anni passati l’uso della detenzione preventiva è stato esteso attraverso una serie di modifiche di legge, tra cui una che ha abolito il limite massimo dei dieci anni. In Germania, teoricamente ma anche praticamente per alcuni, si può essere tuttora tenuti in carcere tutta la vita (da notare la meraviglia con cui lo Spiegel sottolinea questa condizione, che da noi è invece vissuta come assolutamente normale malgrado le proposte sull’abolizione dell’ergastolo). E all’abolizione del limite è stato dato valore retroattivo, applicabile quindi anche a chi già si trovasse in carcere al tempo. Strasburgo ha sancito tre mesi fa che questa decisione, avallata dalla Corte Costituzionale tedesca, viola i diritti umani dei detenuti e l’ha bocciata. Adesso i ministri dell’Interno e della Giustizia, preoccupati dei 15 detenuti liberati e dei 60 da liberare (in Germania le rispettano, le sentenze di Strasburgo, evidentemente), hanno presentato un progetto di legge per la creazione di una specie di “carcere light” che superi le contestazioni di Strasburgo: non è un carcere, è una cosa poco chiara dove ci si concentrerebbe sulla rieducazione e la “terapia”, ma si sta attenti a non farla somigliare a una clinica psichiatrica (quelle ci sono già). Come spiega lo Spiegel, il progetto sta generando reazioni varie e preoccupate, ma anche di un discreto equilibrio, viste da qui: persino i suoi critici, che alludono ai sistemi di internamento dei regimi dittatoriali, ammettono che un problema di principio e di tutela dei cittadini c’è. Mentre i suoi fautori ammettono che un dilemma etico e civile c’è.
È difficile venirne a capo, e le uniche conclusioni chiare sono due. La prima è che è difficile venirne a capo, e questo dovrebbe orientare ogni dibattito su questo tema (forse ogni dibattito su qualunque tema). La seconda è che in Germania il dibattito ha comunque un altro spessore, e le ragioni un’altra concretezza.
Nella prima parte del tuo discorso dismetti con un colpo di penna molta della complessità che circonda il perché le comunità organizzate infliggano delle pene a coloro che violano le leggi che le comunità si danno. In sostanza dici che la pena ha solo funzione di rieducazione e la deterrenza specifica verso i recidivi. Questioni come deterrenza general preventiva, retribuzione o compensazione delle vittime corrispondono solo ad “un’idea di giustizia connessa a sterili attribuzioni di sofferenze completamente privo di fondamento, per quanto istintivo e culturalmente radicato nei nostri pensieri da quando siamo bambini”.
La tua visione se vuoi é quella della costituzione italiana. E’ una visione utilitarista. alla Beccaria. Io comunque non sono totalmente convinto. Che le pene abbiamo una funzione anche retributiva é talmente radicato nell’antropologia umana da non poter essere dismesso cosi facilmente. Kant (e non certo un fanciullo istintivo) stesso rigettava la visione utilitarista ed abbracciava quella retributivista proprio in obbedienza al principio che l’uomo é il fine e non il mezzo (sarebbe usato come mezzo se la pena fosse quella utilitarista).
Sandel stesso (che tu hai letto) -non certo un liberale Kantiano- vede la pena come sottolineatura necessaria delle cose che sono “bene” e di quelle che sono “male”. Insomma, credo che la questione sia un po’ più complessa e che tu sia stato frettoloso nel liquidarla
Ti rispondo, con ordine.
1 – Che la questione sia complessa e che io l’abbia semplificata mi è così chiaro che l’ho scritto almeno un paio di volte. Volevo soprattutto raccontare la discussione tedesca, e la premessa era accessoria a questa.
2 – Che la “funzione retributiva” sia “radicata nell’antropologia umana” – te lo dico senza giri di parole – è per me un argomento irrilevante. Sono state, e sono tuttora, radicate nell’antropologia umana inclinazioni che grazie al cielo abbiamo consentito di superare, almeno in linea di principio. Insomma, che tu abbia voglia di menare a sangue quello che ti ha rigato la macchina è radicato nella tua antropologia e in quella di molti di noi: ma la legge non lo avalla e non lo mette a fondamento delle sue scelte.
3 – Diversa è la questione della soddisfazione del “senso della giustizia”, e l’ho scritto. Benché concretamente irrilevante ai fini pratici di risoluzione dei problemi puntuali – la mia detenzione non ti ripaga della macchina rigata, non serve a niente, e anzi volendo avalla e legittima sentimenti di vendetta e ritorsione trasformandoli in compito dello Stato – un livello accettabile di “senso di giustizia” deve essere soddisfatto per mantenere la serenità della comunità, e di conseguenza ancora il suo pratico funzionamento e benessere. Ma non si deve trasformare in demagogia e anzi compito delle classi dirigenti e intellettuali è fra crescere la sensibilità e la cultura dell’opinione pubblica perché la pretesa di soddisfazione di questi sentimenti da parte dello stato sia ridotta al minimo.
4- Su questo Sandel, come tu stesso indichi, parla di “pena” che sottolinei e sanzioni: la sanzione non deve essere per forza accompagnata a una sofferenza inutile.
Ma, ripeto anche questo, la questione è difficile, e la tua tesi che io l’abbia “liquidata” del tutto contraddetta dalle mie parole.
L.
L’abolizione dell’ergastolo?
Mio lapsus, corretto.
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Ahi. sento di essere vittima dell’utilizzo di quell’espediente giornalistico che tu denunci sempre di cui non ricordo il nome (fare una caricatura dell’argomento dell’avversario per poi dimostrarne l’inconsistenza). é ovvio che la soddisfazione della funzione retributiva della pena impone, a fronte di un crimine di punire per se (senza guardare al fine utilitaristico), ma questo non implica che la punizione debba essere inumana/barbara/incivile come tu sostieni. In sostanza funzione retributiva é in larga parte sovrapponibile a quello che tu definisci “soddisfazione del senso di giustizia”. é questo che io ritengo un elemento cosi radicato da non poter essere facilmente dismesso.
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@Matnet: Straw man argument. Ma mi pareva di aver letto le tue parole, se le ho capite male tanto meglio. Invece ci dev’essere stato qualche errore di costruzione nella frase centrale del tuo commento, perché non la capisco.
Rivolto lo “straw man”: e l’11 Settembre? Un orrore talmente grande che mettere in carcere 2 o 3 talebani “soddisfa” cosa? Il dolore dovrebbe averci insegnato a fare in modo di EVITARE queste cose, e che la retribuzione te la sbatti sui cosiddetti.
(Ovvio che è un ragionamento a mente fredda).
@luca. Mah io non vedo nessun errore di costruzione. Solo ti contesto l’affermazione che la punizione sia solo una questione di deterrenza e rieducazione. C’é anche la retribuzione e questo non mi iscrive automaticamente tra i selvaggi che vogliono la lapidazione (sarei in compagnia di Kant se cosi fosse).
Ma ti dirò di più, forse nemmeno tu sei cosi utilitarista infondo. Proviamo a fare un esercizio ipotetico alla Sandel ok? un bel dilemma morale…
Prendiamo un bel caso di omicidio passionale commesso da un signore distinto e beneducato un po’ in là con l’età. Data l’età é improbabile che il signore si rifidanzi e ri-commetta un crimine per passione. Non abbiamo bisogno quindi di assolvere alla funzione rieducativa della pena. Supponiamo che in questa futura ipotetica società la tecnologia forense sia cosi avanzata che i casi di omicidio vengono risolti nel 99% dei casi. non abbiamo quindi nemmeno bisogno di assolvere alla funzione deterrente. Basta il risarcimento dei danni (come si quantifichi e chi debba riscuotere il danno da omicidio é un altro paio di maniche).
Per coerenza con la tua tesi, questo signore non dovrebbe essere punito in alcun modo. Non dico che non dovrebbe essere punito in maniera incivile (questo é ovvio). Non dovrebbe essere proprio punito in alcun modo. Se sei d’accordo, sei un utilitarista. Posizione nobile e legittima. Io sono un economista, figuriamoci se non provo simpatia in generale per l’utilitarismo. Però ho la sensazione che ci sia un’aspetto del “punire i reati” che questo approccio non cattura e che ciò nonostante é legittimo e necessario. LA società definisce come reati le cose che classifica come ingiuste e “punisce” (anche se vuoi in maniera simbolica) chi li perpetra al di là delle conseguenze utilitaristiche della punizione. Non ci vedo niente di incivile in questo. Anzi, mi sembra tutto molto Sandeliano….
Spero di essere stato più chiaro questa volta…
La funzione retributiva della pena in realtà serve in almeno tre circostanze: (i) prima che il reato venga commesso; (ii) nel momento in cui il giudice deve comminare la sanzione nel caso concreto; e (iii) durante l’esecuzione della pena. Infatti:
(i) prima che il reato venga commesso, il legislatore che deve decidere come punire un determinato comportamento non può utilizzare il criterio della rieducazione (prevenzione speciale), perchè dipende dalla personalità individuale del singolo reo e dunque non fornisce un criterio suscettibile di applicazione generale (nel decidere a quanti anni punire il furto, non si può considerare quanti anni di carcere saranno sufficiente a rieducare il futuro ladro o a dissuaderlo dal compiere il reato, perchè ciò dipende dalla personalità del singolo ladro). In questo caso, il legislatore può solo orientarsi sulla base di quanto un comportamento criminoso è socialmente percepito come grave e dunque meritevole di retribuzione. L’alternativa sarebbe non predeterminare in alcun modo il minimo e il massimo della pena, lasciando al giudice il compito di determinarla caso per caso secondo le circostanza concrete (come spesso succede negli USA, dove il legislatore individua la condotta che costituisce il reato, ma lascia alla giuria il compito di deteriminare la pena secondo la più ampia discrezionalità): questa alternativa è tuttavia inaccettabile in uno stato di diritto nel quale in base al principio di legalità si vuole che non sia dato castigo senza che questo sia stato previsto dalla legge come tale prima della commissione del reato.
(ii) Anche al momento della comminazione della pena la funzione retributiva ha un suo significato in un sistema penale come il nostro, nel quale la pena viene prevista dalla legge entro una “cornice edittale” (vale a dire fissando un minimo ed un massimo fra cui il giudice deve scegliere), perchè essa consente di orientare la scelta del giudice. Per esempio, se il furto viene punito con la “reclusione da sei mesi a tre anni” (art. 624 c.p.), è solo valutando l’elemento retributivo che il giudice potrà condannare, da un lato, al minimo della pena chi ha rubato un bene dal valore irrisorio, magari perchè spinto da necessità, e, dall’altro lato, al massimo della pena il ladro incallito che ha commesso un furto molto più grave. Se il giudice potesse orientare la propria scelta solo attraverso il criterio della prevenzione generale o speciale, il risultato, a seconda delle circostanza concrete, potrebbe essere molto diverso; il giudice potrebbe, p.es., condannare al massimo il ladro di polli e al minimo il ladrone incallito, magari perchè ritiene che in base alle loro personalità il primo potrebbe commettere altri furti e il secondo no oppure perchè ritiene che sia necessario una volta per tutte dare una lezione e punire con una penal esemplare i tanti ladri di polli che infestano il paese, ed è evidente che questo risultato cozzerebbe contro il più elementare senso di giustizia.
(iii) Una volta che la sanzione penale è stata comminata, la retribuzione perde in effetti gran parte della sua funzione e si trasforma in vendetta dello stato (eventualmente in nome delle vittime) contro il reo. Durante l’esecuzione della pena, l’unica cosa che dovrebbe contare è se il reo si è rieducato (qualunque cosa questo significhi). Una volta che il reo è pronto a rientrare civile consesso della società, protrarre ulteriormente l’esecuzione della pena nei suoi confronti, solo per dare sfogo alla sua funzione retributiva, non ha alcun senso se non quello di portare a termine effettivamente la promessa sanzionatoria prevista dalla legge. Se tale obiettivo cozza però contro l’avvenuta rieducazione del reo, è necessario scegliere quale dei due debba prevalere: nel sistema penale italiano è la stessa costituzione (art. 27) a indicare che la funzione riabilitativa è quella prevalente. Tuttavia, anche durante l’esecuzione della pena la funzione retributiva non perde del tutto di utilità, perchè serve a porre un limite massimo alla pratica riabilitativa che altrimenti potrebbe protrarsi indefinitivamente. Prendendo ad esempio chi ha commesso un reato di ingiuria (punibile con la reclusione fino a sei mesi), offendendo l’onore e il decoro di un’altra persona, ed è stato condannato al massimo (appunto, sei mesi) in ragione della gravità della sua condotta, sarebbe senz’altro ingiusto tenere questa persona in carcere dopo lo scadere dei sei mesi in considerazione del fatto che non si è pentito e che una volta uscito di galera è pronto a commettere di nuovo lo stesso reato (cioè perchè la funzione specialpreventiva non è si è del tutto esaurita): la ragione di tale ingiustizia sta proprio in ciò, che si ritiene che la funzione retributiva debba segnare il limite massimo della pena.