Leggo una storia toscana di trattative per il passaggio eventuale di alcuni politici locali dal PdL a Futuro e Libertà. Luigi Lanera, elbano, spiega da cosa dipendono le sue decisioni: “io faccio parte di una squadra che fa riferimento a Marcella Amadio”. Marcella Amadio, livornese e consigliere regionale, a sua volta dice che lei sta “dove sta Alemanno”. E questa sfacciata esibizione di allineamenti per cosca, ognuno col suo capocorrente, è tipica della politica italiana: in cui le eventuali scelte di appartenenza a un progetto politico sono seconde all’appartenenza a una famigliola e a un capofamiglia (se ci pensate, è la declinazione della nota tesi per cui in Italia le famiglie prevalgono sulle comunità, le mafie sullo stato, le curve sulle idee) che garantisca la forza del gruppo, a prescindere da quel che il gruppo intenda fare. Che avere un leader è buona cosa, ma dargli carta bianca meno.
Postilla incidentale: questo è uno dei miei motivi di apprezzamento per Matteo Renzi, a lungo dato per “rutelliano” (pensa tu) prima di emanciparsi da quella definizione nel momento in cui gli sono venute altre idee e altri progetti.
Il problema non è “fare gruppo”. Il problema è mantenere quella rete di contatti che ci si è costruiti e che permette di mantenere quel posticino che col tempo ci si è conquistati, magari in circoscrizione piuttosto che in comune. Altrimenti, bisogna ricominciare da zero.
Sottoscrivo al 100% il post di Sofri.
Se l’Italia è quello che è dipende dagli italiani, se abbiamo bisogno di un leader più che di un progetto, se abbiamo bisogno di un clan più che delle leggi, significa che siamo destinati a rimanere come siamo.
Con la beffa che le eccellenze italiane sono invece proprio individuali e quasi mai di squadra.