Hacking Work

Questa intervista con Josh Klein è uscita sul numero di dicembre 2010 di Wired.

Josh Klein dice di essere un hacker e ha appena pubblicato un libro che si intitola “Hacking Work: Breaking Stupid Rules for Smart Results”. Però non quel tipo di “hacker” lì, quello che qua si associa allo smanettone fuorilegge. Qui si parla di hackerare il mondo e la vita, quasi.
“Il termine viene dal lavoro dei meccanici che smontavano motori per aggiustarli, e gli ingegneri lo usano ancora col significato di “capire come funzionano le cose, smontarle e rimetterle insieme in un modo più efficace”.
Quindi per te chi è un hacker?
Tutti noi: prima o poi ci capita di smontare delle regole per ottenere dei risultati migliori. Però non realizziamo che è hacking e non ci facciamo delle riflessioni. Io cerco di definire un quadro di pensiero in questo senso, invece.

Non una cosa di software e tecnologie, allora…
Sì e no. Quando ero piccolo e mi cadeva un dentino lo mettevo sotto il cuscino perché venisse la fata del dentino e mi lasciasse un quarto di dollaro. A nove anni, quando mi è caduto un ennesimo dente l’ho messo sotto il cuscino insieme a un appunto che comunicava alla fatina che per via dell’inflazione mi spettava un dollaro intero. Quello era un hack: capire il sistema e trovare modi per violare le regole e ottenere risultati migliori.

E funzionò, quella volta lì?
Certo.

Nel libro parli molto di “violare le regole…
Una volta un’azienda mi chiese una consulenza sulla sua sicurezza e io notai che gli impiegati usavano troppo Google Docs senza protezioni. Loro dissero “impossibile, è vietato usare Google Docs”. Così mostrai loro il traffico online relativo a Google Docs, e loro non ci potevano credere: “ma è contro le regole”. Già, dissi loro, ma se i dipendenti lo usano è perché hanno capito che gli serve, che lavorano meglio violando una regola. Bloccarlo non è una soluzione. A volte le regole assolute rendono inefficienti il lavoro delle persone e delle aziende.

E quindi bisogna violarle o cambiarle?
Alla fine cambiarle: ma il problema è che c’è tantissima gente che capisce che il sistema non funziona ma non osa sfidarlo per cambiarlo. Tutti si lamentano delle cose, ma poi non fanno niente perché hanno paura di essere licenziati, o di altri guai. Ma se non fai niente, le cose non miglioreranno mai.

Beh, la paura dei rischi è comprensibile…
Sì, ma io non conosco nessuna azienda che abbia licenziato un impiegato che abbia alzato la mano per dire “ho provato a fare in quest’altro modo e funziona, e così guadagnate più soldi”.

Ma se cambiamo tutte le regole in meglio, dopo non ci sarà più bisogno di violarle, né di un pensiero hacker…
Non credo: mostrami una situazione in cui niente possa essere migliorato. Sicuramente non in questi tempi: abbiamo pubblicato il libro perché ci sembrava ce ne fosse bisogno. Non c’è mai stata tanta necessità di innovazione, e al tempo stesso se ne pratica troppo poca. Le cose non funzionano, e gli individui hanno sempre più potere di cambiarle: però le aziende non ne tengono conto.

Parli solo di aziende e business, o anche di etica e cambiamento del mondo?
Nel libro ne parlo. Del fatto che quando infrangi le regole, questo deve migliorare le cose per gli altri e non danneggiarli. Altrimenti rapino una banca, e ho violato le regole con mia soddisfazione. Poi mi arrestano, e il fallimento è completo. L’idea è di smontare le cose che non funzionano per il bene di tutti.

E chi decide cos’è che non funziona?
Questo è un problema. In teoria ci sono delle organizzazioni che cercano di capirlo, ma la complessità crescente fa sì che oggi molta responsabilità ricada sugli individui, che devono essere in grado di capire quali strumenti usare per giudicare e cambiare i sistemi.

Qui però abbiamo un detto: “chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova”…
Molte volte è vero il contrario. Forbes ha fatto una ricerca e ha scoperto che la maggior parte degli impiegati di una serie di aziende usa dei software diversi da quelli assegnati dall’azienda. Lo fanno perché li trovano in rete, perché funzionano, e l’azienda neanche sa che esistono. Le opportunità di innovazione oggi sono talmente tante che sta sulle spalle di ognuno trovare cosa è meglio fare in ciascun contesto, e spesso quel che è meglio è una cosa nuova, diversa.

Il tuo libro è preceduto dalle consuete norme sul copyright, i diritti, eccetera. Ma se io tolgo il DRM dall’edizione elettronica e lo distribuisco online, non sto infrangendo le regole per il bene comune?
Sì. Hai ragione. Le cose che sono nel libro io le ho prima scritte online e come testi scaricabili, cambiando i sistemi correnti dell’industria editoriale. E ho fatto bene, le cose che dico sono circolate molto più che non facendo lezioni e conferenze in giro. Ha funzionato. Adesso provo la vecchia maniera, che per me è nuova. Vediamo come va.

Così però uno deve passare la vita a violare le regole precedenti, nessun principio è mai fuori discussione…
Vero, e naturalmente ci deve essere una dose di buon senso a equilibrare quello che stiamo dicendo. Ma una cosa che possiamo notare è che il costo delle sperimentazioni si sta abbassando sempre di più. Una volta per sviluppare un buon sito web ci volevano nove mesi, adesso bastano tre giorni. Si possono fare un sacco di test, soprattutto con la tecnologia. E quindi molte volte non ribaltiamo davvero le cose fino a che non abbiamo verificato che ne vale la pena.

Ma per le aziende, soprattutto di questi tempi, qualche rischio nel cambiamento c’è, no?
Non credo: hanno solo molta più paura. E questo ha a che fare con la crisi economica, perché ne è un fattore più che una conseguenza.

Quindi i tentativi degli editori che mettono le news online a pagamento sono invece coraggiosi?
No, non c’entrano con l’innovazione. Non ha niente a che fare con lo hacking. È un esperimento che nasce dalla paura che la casa bruci: magari ha senso, ma se la casa sta bruciando probabilmente c’è bisogno di ben altro.

Tutto questo parlare di violare le regole e di cambiare le cose “a forza di bad things”, non temi insegni alla gente che è giusto fare bad things?
Non credo, sono parole. Michael Jackson ha fatto quel disco che si chiamava “Bad”, ma le persone non sono diventate più cattive ascoltandolo. Sono modi di dire: “ci siamo capiti”.

E se non ci capiamo?
Puoi avere ragione: io però insegno, e ho l’impressione che i ragazzi capiscano quando uno dice stronzate o no. Ricevono una quantità enorme di messaggi prima ancora di avere finito la colazione, e hanno imparato a capirne il significato e le intenzioni.


O almeno spero!

Non si può solo sperare, bisogna cambiare le cose: l’ho letto nel tuo libro.
Temevo avessi letto solo le norme sul copyright.

Come hai fatto a pubblicare un libro? Voglio dire, cosa avevi fatto finora per far conoscere le tue idee e i tuoi progetti?
Uh, da dove comincio?

Dimmi cosa ti ha cambiato la vita.
Ti direi una ragazza che ho seguito in Islanda e che ho sposato, ma intuisco che tu mi chieda altro. Forse una svolta per me è stato il lavoro per la tesi che ho fatto alla New York University per progettare un sistema di codifica sicuro per la trasmissione di immagini e testi, che doveva servire a promuovere la libertà di espressione e la segnalazione di violazioni dei diritti civili in Eritrea, il paese di un mio amico con cui lavoravo al progetto.

E come è andata?
È andata che il sistema era basato sugli smartphone, e in Eritrea gli unici ad avere gli smartphone allora erano le forze del governo che compivano gli abusi, e quindi il progetto non aveva nessun senso. Ma lo capii molto tardi ed ero molto depresso. Così mia moglie (quella dell’Islanda) mi disse: sono dieci anni che parli di quest’idea delle gazze, falla, anche se è una cosa da pazzi.

L’idea delle gazze?
Sì, ho costruito una “scatola delle gazze” che insegna alle gazze a consegnare le monete che trovano in giro in cambio di noccioline. Ne ho parlato in giro, mi hanno invitato al TED, e quello mi ha abbastanza cambiato la vita (ci sono state polemiche sulla fondatezza di quell’esperimento, a causa di un articolo approssimativo del New York Times che ha poi dovuto essere smentito, ndr). E ho imparato che è meglio investire due anni in una cosa da pazzi in cui credi, piuttosto che lasciarli passare facendo le solite cose che ci si aspetta che tu faccia. Nel senso che poi serve.

E come mai non lo fanno tutti, secondo te?
Perché è una roba che fa paura.

Ma a te no.
Io ho capito che passare la mia vita in un ufficetto facendo cose che non mi piacevano e aspettando di invecchiare e morire non era quello che volevo fare. Ma non sono più furbo: ho avuto esperienze fortunate, mi sono laureato all’inizio della new economy, ho girato il mondo. E più facevo cose inattese, più capivo che è meglio farle. Ma è cominciata studiando le persone che ammiravo: e avevano questa cosa in comune.

Hacking.
Bravo.

 

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