Un grande paese, l’introduzione

Noi siamo i buoni, vediamo di dimostrarlo.
Thomas Friedman, diciamo

Ci sono le cose giuste e le cose sbagliate. E bisogna fare quelle giuste.
Mio padre

Comportatevi bene.
Mia madre

Anni fa mi affezionai a una frase di Thomas Friedman e presi a usarla spesso, soprattutto sul mio blog: «Noi siamo i buoni, vediamo di dimostrarlo». Mi sembrava – mi sembra tuttora – ci fosse dentro tutto quello che bisogna sapere per affrontare la vita e il mondo. Mi ci abituai talmente da dimenticarmi che Friedman non l’aveva mai detta proprio così: la sintesi me l’ero permessa io citando un suo articolo del 2001, scritto tre mesi dopo l’attentato al World Trade Center.

Thomas Friedman è uno stimatissimo editorialista del «New York Times», di lungo corso e grandi esperienze, una specie di superstar dell’analisi politica internazionale, liberal ma soprattutto di grande equilibrio e nessuna faziosità. Adesso è un po’ meno in auge, da quando prevalgono i suoi colleghi più bellicosi, e poi invecchia anche lui. Quel suo pezzo si intitolava Ask not what…, come l’attacco di una celebre frase di John Fitzgerald Kennedy che conosciamo tutti: «Non chiedete cosa il vostro paese possa fare per voi, ma piuttosto cosa potete fare voi per il vostro paese». Kennedy lo aveva detto concludendo il suo discorso di insediamento, in una fredda e luminosa giornata di gennaio, era il 1961.
«Non chiedete cosa il vostro Paese possa fare per voi, ma piuttosto cosa potete fare voi per il vostro Paese.»
Nel 2001 Thomas Friedman aveva quindi scelto di citare quella frase nel titolo del suo editoriale, per suggerire agli americani la necessità di ritrovare quello stesso impegno e quel senso di responsabilità; per suggerire che i destini propri e del mondo stanno nelle mani degli uomini e delle donne che sanno impossessarsene. Che le cose cambiano solo se te ne occupi. E quindi Friedman scrisse:

Se vogliamo andare in giro per il mondo a schiacciare terroristi da Kabul a Manila, sarà meglio che ci assicuriamo di essere sempre i migliori cittadini e il migliore Paese possibile. Altrimenti lo perderemo, il resto del mondo.

Non so se Friedman sarebbe d’accordo con la mia sintesi – «Noi siamo i buoni, vediamo di dimostrarlo» – ma lo spero. Il suo articolo proseguiva così:

Questo significa non solo minacciare in modo convincente i cattivi del mondo, ma anche dare una mano ai buoni. Significa raddoppiare i nostri aiuti internazionali, intensificare i programmi di promozione della democrazia, aumentare il nostro contributo alle banche per lo sviluppo (che offrono crediti alle donne povere) e abbassare le barriere commerciali contro le importazioni di prodotti tessili e agricoli dalle nazioni più povere. Immaginate cosa succederebbe se il presidente chiedesse a ogni scuola americana di raccogliere dei fondi per comprare delle lampade a energia solare che illuminino ogni villaggio africano e permettano ai ragazzini africani di leggere la sera. E immaginate che su ognuna di quelle lampadine ci sia la bandiera americana: e quando quei bambini cresceranno si ricorderanno di chi ha illuminato le loro notti.

Vi pare un suggerimento ingenuo? Alla luce di com’è andata davvero la promozione dell’immagine americana negli anni successivi, è facile pensarlo: nessuno ha poi comprato lampadine e così le notti dei bambini afgani e iracheni sono state illuminate da ben altro. Ma proprio per questo quello di Friedman non era un articolo ingenuo: è l’articolo di una persona che ha capito e deciso che bisogna fare le cose giuste, per quanto improbabili siano. E qui arriva la seconda citazione che uso per spiegare di cosa parlerà questo libro, e anche questa me la sono inventata io ma è frutto del pensiero di qualcun altro.

Ormai molti anni fa una giornalista mi intervistò su mio padre – che scrive libri e fa il giornalista ed era stato appena condannato in un processo allora molto discusso – e mi chiese a un certo punto quale fosse la cosa più importante che mi avesse insegnato. Due cose, le dissi io, come se avessi aspettato tutta una vita l’occasione di infilare in poche parole decenni di insegnamenti straordinari ricevuti. Mi ha insegnato due cose, dissi: una è che ci sono le cose giuste e le cose sbagliate. E l’altra è che bisogna cercare sempre di fare quelle giuste.
Ora, se siete di quelli che trovano questo pensiero banale, o ovvio, avete due chance: la prima è chiudere questo libro, e se siete stati accorti non lo avete nemmeno comprato ma lo state sfogliando in una libreria e potete rimetterlo in cima alla pila. La seconda è pensarci bene. Pensare a quanto tempo e impegno dedichiamo davvero a capire quali siano le cose giuste e quali quelle sbagliate, e a quanta assiduità mettiamo nel cercare di fare sempre quelle giuste. Potete pensarci anche a casa, con calma, tanto questo libro sarà ancora qui nella pila domani. Se non lui, un altro uguale a lui, e vorrà dire che per qualcun altro in questa libreria questo inciso non è stato necessario: meglio così.

Thomas Friedman è uno che da sempre cerca di capire quali siano le cose giuste e quali quelle sbagliate, e pensa si debbano sempre fare quelle giuste, o almeno provarci. Per questo fa delle proposte intelligenti e buone anche quando nessuno poi le segue. Non solo perché c’è sempre una possibilità che qualcuno le faccia, le cose giuste, e fino a che ce n’è una va cercata, allevata, cresciuta: fosse anche una su un milione. Ma anche perché sa (io credo che lo sappia, leggendolo) che la ricerca stessa del giusto, del buono, dell’intelligente, basta a cambiare il mondo. Le cose giuste vanno fatte anche solo perché sono giuste, e perché farle diventa un insegnamento. Sono esse stesse il risultato. Adesso qualcun altro, in un’altra libreria, si starà domandando: e già, e chi decide quali siano quelle giuste? Durante la lettura di questo libro vi capiteranno tante domande così, e tante tentazioni di trovare cose che non convincano, nei suoi ragionamenti. Trovare le falle nei ragionamenti altrui è la cosa più eccitante per chi li ascolta (la seconda è non trovarne). Io vi propongo di avere un po’ di pazienza, prima di alzare la mano e dimenarvi nel banco come faceva Horschack nei Ragazzi del sabato sera1, tentazione che mi è familiare. Almeno finite il libro e verificate che quelle falle non vengano riempite: un po’ di pazienza2.

copertina_finaleLe cose giuste che scrisse Thomas Friedman in quell’articolo, e la mia sintesi – uno slogan? Forse: ma gli slogan aiutano – sono un insegnamento. Un insegnamento: comincio a scriverlo ora, che poi è importante. «Noi siamo i buoni, vediamo di dimostrarlo» vuol dire che per quanto si pensi di stare dalla parte giusta e di voler cambiare le cose in meglio, la propria fedeltà a questa volontà va rinnovata e confermata ogni giorno e con ogni gesto, e che anzi sono i propri stessi gesti ad accreditare questa volontà. La tessera di iscrizione al circolo dei buoni è in scadenza continua e non basta essere nati nel palazzo di fronte ai suoi uffici per potersene vantare. Noi occidentali privilegiati da una ricchezza e da un accesso alla cultura e alle informazioni senza uguali nella storia e nella geografia del mondo, ci troviamo nelle condizioni migliori per capire quali siano le cose giuste e per farle: siamo corresponsabili senza alibi di quello che accade al mondo e di quello che gli accadrà. Ma non – scorciatoia e alibi per fregarsene concretamente – pensando a noi come società, come cultura, come nazione: parlo di ciascuno di noi e della sua responsabilità nei confronti di se stesso, degli altri e del futuro. In modo meno solenne e più articolato, di questo parlerà questo libro. «Articolato» è una parola usata per nascondere «disordinato», qualche volta: lo è anche qui, perché fare disordine, mettere carne al fuoco, è il modo migliore per cominciare a capire le cose. Poi vedremo cosa farne, delle cose che avremo capito e di questo libro. Perché predicare e razzolare sono due operazioni altrettanto importanti e generose – il modo di dire abusato3 è spesso una scusa per avvilire le buone predicazioni, preziosissime –, come dimostra l’eccitazione complice che percorse alcuni luoghi di internet quando un segretario del Partito democratico disse durante un programma televisivo:

Io devo fare delle cose giuste, non cercare il consenso facendo cose che non ritengo giuste.

Poi non le fece, ma le sue parole serviranno a qualcun altro. Le parole sono importanti. Sono metà dell’opera. Poi c’è l’altra metà.
Sappiamo che non sono più prodotti definiti dalla loro struttura materiale, ma servizi definiti dal progetto che li identifica. Muta il modello di business, il design, la tecnologia, la filiera produttiva, il modo di fruirne: ma non muta, e anzi si rinforza, il senso del metodo con il quale si distingue l’informazione sostanziata empiricamente dalla comunicazione fondata sulle ideologie, le credenze, i pregiudizi.

Chi cerchi una ricetta, una soluzione buona per tutti – in questo libro – non la può trovare. Non per rinuncia. Perché sarebbe una ricerca sbagliata. Ci sono migliaia di tentativi, esperimenti, ricerche, proposte, nel mondo effervescente dei media sociali e nell’industria editoriale nel suo complesso. Ciascuno è chiamato a giocare le sue carte, a proporre la sua visione, a offrire il suo servizio. L’equilibrio di un ecosistema – anche quello dell’informazione – emerge dal movimento dell’insieme.
Sappiamo che non sono più prodotti definiti dalla loro struttura materiale, ma servizi definiti dal progetto che li identifica. Muta il modello di business, il design, la tecnologia, la filiera produttiva, il modo di fruirne: ma non muta, e anzi si rinforza, il senso del metodo con il quale si distingue l’informazione sostanziata empiricamente dalla comunicazione fondata sulle ideologie, le credenze, i pregiudizi.
Questo libro non parla genericamente di «comportarsi bene», che pure sarebbe un programma ambizioso abbastanza da costruirci un partito intorno, figuriamoci un libro (ci hanno persino costruito una religione imbattibile, prima di incasinarla con i regolamenti attuativi). Ma parla di molte cose che girano intorno all’idea che il miglioramento di noi stessi (no, non è roba new age) e del mondo debba essere il motore che fa camminare le nostre vite, perché tutto il resto poi viene da lì. Essere felici, viene da lì. Rendere felici gli altri, viene da lì. E le due cose si aiutano a vicenda. Dovrei forse rassicurare i lettori che vedano in queste perentorie asserzioni un inquietante avvicinamento all’ideologia. L’ideologia è malfamata perché è diventata la mascheratura di interessi inconfessati e sinonimo di rigidità. Ma l’ideologia non è una cosa cattiva – vuol dire «sistema di idee» – se è fluida ed elastica abbastanza, curiosa e dubbiosa, e le idee del sistema sono buone.

Questo libro, insomma, parla di tre cose: una è il rapporto che gli italiani hanno con l’Italia, e il significato dell’identità italiana in questi decenni. È una questione che ha un primo inciampo nella drammatica retoricità della sua definizione: identitàitaliana. Ho provato a trovare espressioni più moderne per rendere questo concetto, «l’identità dell’Italia e degli italiani». Tipo: questo libro parla di ’sto accidenti di paese e della sensazione che ci dà. Vedete voi se preferite. Stiamo comunque già dentro alla questione, quella dei modi per parlarne, dell’Italia.

Una seconda cosa di cui parla questo libro è il meccanismo politico e sociale intorno a cui stanno girando da qualche anno la politica italiana e la relazione degli italiani con la politica. Che è quello del conflitto tra elitismo e antielitismo, conflitto in cui il primo sta soccombendo con conseguenze catastrofiche. Anche a questo concetto serve una formulazione non accademica e meno stancante, che può essere: non siamo tutti uguali. Certi sono più fortunati e certi più bravi, e sono loro che devono – devono – fare le cose più difficili. Altri sono bravi solo in cose specifiche, e devono fare bene quelle. Tutti hanno una parte di cose da fare, che non è mai la stessa per tutti. Ma il mondo sta invece andando dalla parte opposta, quella in cui Sarah Palin poteva diventare vicepresidente degli Stati Uniti e in Italia si viene eletti in parlamento senza sapere chi sia Nelson Mandela o dove si trovi Guantánamo (come rivelò una popolare e deprimente serie di servizi televisivi, qualche anno fa)4. Si diventa leader politici perché si era fatto qualcos’altro, non necessariamente bene, o per ragioni peggiori. E intanto ci sono persone di competenze e intuizioni straordinarie a cui non è dato nessun accesso al miglioramento del loro paese e di cui spesso è malvista la stessa straordinarietà, e aumentano quelli che rinunciano e trovano di meglio da fare, lasciando ulteriori spazi politici a chi non è tagliato.

La terza e ultima idea di questo libro è che ognuno di noi sia responsabile – in una misura diversa per ognuno – del proprio destino e di quello del mondo. E questo significa due cose: che i progressi collettivi passano per i progressi individuali, e che ognuno ha la sua parte di responsabilità e di dovere. «Fa’ il tuo dovere» è un grande e appassionante insegnamento (cito Norberto Bobbio ed Enzo Bianchi5), soprattutto se il tuo dovere te lo sei costruito tu con l’aiuto degli altri.

Questo libro insomma parla di noi, ovvero di voi, e del nostro paese. Ne parla con una solida opinione che questo paese sia spacciato: che la tragedia di un paese ridicolo si sia ormai compiuta. Ma neanche la solidità di questa opinione riesce a toglierci la nostalgia per una cosa che non c’è mai stata e la tentazione di cercarla: un posto di cui essere orgogliosi, contenti, a cui appartenere. Un desiderio che spinge molti ad andarlo a cercare altrove, questo posto, o a sognare di farlo. E che non sarà invece mai esaudito davvero fino a che l’Italia e le sue persone non avranno ricominciato a fare progetti e sacrifici che vadano oltre le prossime due settimane. Se si salva, l’Italia si salva tra vent’anni e solo cominciando a lavorarci come dei matti da subito. Altre strade non ci sono, altre cose non succederanno. Questo lo scrisse lo scrittore e poeta Robert Penn Warren a proposito della fine della segregazione razziale:

Se per riformista intendete una persona che ritarda le cose per il gusto di rinviarle, io non lo sono. Ma se invece un riformista è qualcuno che pensa ci voglia tempo per un processo pedagogico, meglio se progettato, allora sì. È sciocco chiedere a qualcuno se lo sia, un riformista. Il riformismo è l’unica via: la storia, come la natura, non conosce salti improvvisi. All’infuori di quelli all’indietro, forse.

«Riformismo» è un’altra parola noiosa e svuotata, e se la uso è solo per debito nei confronti di un pensiero longevo: ma con i tempi che corrono non è più il contrario della rivoluzione6: è la rivoluzione.

Pensare di poter cambiare le cose tra vent’anni è rivoluzionario. Niente arriverà all’improvviso a rimettere in sesto l’Italia, lo sappiamo bene e la storia recente ce lo dimostra. E niente arriverà, neanche gradualmente, senza metterci energicamente le mani. Stiamo andando, gradualmente, da un’altra parte. La ragione per cui le tre idee che ho elencato – le rielenco sbrigative? Meglio:

  1. ci serve un paese di cui essere contenti, e non lo abbiamo;
  2. dobbiamo tornare a usare il valore delle persone e della cultura;
  3. ognuno di noi è responsabile e complice.

La ragione per cui stanno insieme in questo libro non è solo che le loro implicazioni si accavallano in più punti, ma più esattamente che la terza determina la seconda e la seconda determina la prima, e quindi la loro successione in quest’ordine è una ricerca dell’unico possibile futuro migliore per l’Italia. Una ricerca disincantata e con i piedi per terra: disincantata e con i piedi per terra, sottolineato tre volte. All’inizio del ventesimo secolo il professor Konstantin Tsiolkovsky, scienziato russo, decise di trovare il modo di andare sulla luna: e non era una cosa tanto credibile, allora. Ci vollero settant’anni e un sacco di lavoro.

(Un grande paese, Rizzoli, 2011)

 

¹Era un telefilm il cui titolo era stato malamente tradotto per sfruttare la notorietà di John Travolta che ne era protagonista. Horschack era uno dei suoi compagni nella classe dei disadattati, e ululava eccitato quando voleva intervenire. L’ho citato perché dopo una prima lettura l’editore ha chiesto più riferimenti pop.

²Comunque, in questo caso, la risposta alla domanda è «decide il beneficiario ultimo in modo informato, a ragion veduta».

³«Predicare bene e razzolare male», ne parlo più avanti.

4Il programma era Le Iene: Sabrina Nobile intervistava i parlamentari su questioni di cultura generale e attualità, con risultati drammaticamente imbarazzanti. Ai palati forti, se ne consiglia la visione su YouTube.

5È un bel capitolo del libro di Bianchi Il pane di ieri (Einaudi 2008).

6Non confondiamo questa definizione del riformismo – che guarda lontano e si pone grandi obiettivi ma è disposto a conseguirli gradualmente – con quella spacciata dai suoi detrattori, che gli attribuiscono obiettivi modesti.

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