Andiamo avanti tranquillamente

1. Ci sono almeno tre forti ragioni per essere molto delusi dalla scelta di non confermare Emma Bonino agli Esteri. Una è che Bonino è uno dei politici più onesti e competenti sugli Esteri che ci sono in Italia, e azzerare il suo lavoro è una vera sciocchezza, così come lo è smettere di approfittare della sua capacità e impegno. La seconda è che c’è un solo ministero in cui esperienza e rispettabilità sono decisivi e prevalenti sul rinnovamento, e non un alibi vuoto come per altri ruoli; e un solo ministero in cui l’Italia non abbia bisogno di approcci innovativi e sovversivi rispetto a passati fallimentari: ed è il ministero degli Esteri. Lo dico con stima per Federica Mogherini, che penso capace di molto: ma se si pensa al semestre europeo, all’Ucraina, ai marinai in India – per dirne solo tre – scegliere tra Bonino e Mogherini è come scegliere tra un fiammifero e un garofano quando si deve accendere un fuoco. La terza ragione è quella meno concreta e più sgradevole: ed è che anche Matteo Renzi si sia inserito – lo sta facendo sempre più spesso – in un deprecabile solco della politica italiana e della politica di sinistra. Ovvero dare peso al potere contrattuale degli apparati politici piuttosto che alle qualità individuali: e ottenere che ne faccia le spese Emma Bonino, che non conta niente, non la protegge nessuno e non serve a ottenere niente. In questo caso, dovendo Renzi mostrare rinnovamento rispetto al governo Letta non ha però rimpiazzato tre ministri alfaniani; né ha rimpiazzato tre ministri del PD, che pure si dimostrano così indispensabili da essere stati rimescolati in ministeri a piacere (e di uno dei quali a suo tempo aveva opinioni condensate nella definizione di “vicedisastro”). Ha invece scaricato quel che era facile scaricare, e che il PD va scaricando da anni in mille diverse repliche: una tradizione. Una vigliaccheria, in senso tecnico.
(Colmo di paradosso: quello che ha combinato il disastro Shalabayeva resta ministro, dopo che Renzi ne aveva suggerito le dimissioni; quella che ha riportato Shalabayeva viene scaricata).

2. Non si sa ancora com’è andata, ma la certezza con cui circolava il nome di Nicola Gratteri nel pomeriggio di venerdì lascia pensare – anche a chi diffidi delle invenzioni di questi giorni sui “totoministri” – che quel nome fosse davvero fondato. Chi conosce Napolitano ha immaginato presto che le sue attenzioni agli Esteri e alla Giustizia lo avrebbero reso diffidente su quelle due scelte: ora in molti scrivono che l’ha avuta vinta sulla Giustizia e persa sugli Esteri. Se è andata davvero così, c’è da apprezzare la sua misura e deprecare ancora di più l’insistenza renziana sugli Esteri. Ma è una buona notizia che – anche qui al di fuori di ogni opinione su Nicola Gratteri – qualcuno sia riuscito a togliere a Renzi la bislacca idea che un pubblico ministero possa essere una buona idea per un ruolo così delicato e bisognoso di equilibrio come il Ministero della Giustizia. Può darsi che a Renzi piacesse usare questa scelta per mostrarsi capace di provocare Berlusconi, ma ne avrebbe fatto le spese un fronte importantissimo della gestione pubblica e dei guai nazionali. Se glielo ha dovuto spiegare Napolitano, di nuovo complimenti a Napolitano.

3. Non so veramente niente di Stefania Giannini: tendo a pensare sia una brava persona, come tendo a pensare degli sconosciuti. Ma osservo che Matteo Renzi ha preso il settore di cui andava da anni annunciando l’assoluta priorità nella ricostruzione di nuove prospettive per tutti – “la scuola è il terreno sul quale si gioca il futuro del nostro Paese”, diceva il suo programma – e lo ha usato per risolvere il mercanteggiamento ministeriale con un piccolo alleato, consegnando il ministero al suo segretario, come con un Alfano qualsiasi. E non raccontiamoci storie sul fatto che Giannini sia docente universitaria: qualifica assai diffusa e che non ha niente a che fare con le ragioni per cui è diventata ministro, oltre che assai estranea ai temi della scuola di cui Renzi è andato parlando finora.

4. Dario Franceschini, un ministro per tutte le stagioni, è stato messo alla Cultura, pescando tra i sei ministeri per cui erano state fatte ipotesi apposite per lui. È un uomo colto, scrive, va bene. È anche un ex segretario del PD, sottosegretario per la prima volta nel 1999, sfuggito alla micidiale rottamazione di Matteo Renzi – che pure gliene ha dette di tutte – in forza di un suo poterino contrattuale interno al PD che ha messo acrobaticamente al servizio di Renzi dopo averlo spostato un po’ ovunque negli anni. Franceschini – ripeto, stimabile persona – è quello che Renzi ha sostenuto di voler ribaltare in tutti questi anni. L’avergli affidato la Cultura del 2014 – per cui si immaginava per esempio uno come Baricco, che la Cultura l’ha costruita e messa i discussione e rinnovata sempre e ancora oggi – è una delle più spettacolari sconfitte per Renzi di questo governo Renzi, limitata solo dalla superiore dimensione delle altre (un governo con Alfano e Lupi, vedi un po’).

Non sono cose rassicuranti da vedere, ma sono conseguenze inevitabili della natura di questo governo: e sono soltanto le prime. Poi ci sono altre persone, nel governo Renzi: di alcune non so abbastanza, e questo mi fa ben sperare.

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