Trump ha ragione. Su tutte e due le cose che ha detto: è vero che la criticabile scelta dei sette paesi indicati nel divieto di immigrazione è la stessa che fece a suo tempo l’amministrazione Obama per altre decisioni di sicurezza nazionale (e che il New York Times ospiti in testa alla homepage un’accusa che ignora del tutto questo dettaglio non è molto corretto), ed è vero che la stessa amministrazione Obama impose nel 2011 una sospensione degli ingressi ai profughi provenienti da un determinato paese, l’Iraq (aggiornamento che corregge, in coda a questo post)
In entrambi i casi i contesti, i dettagli e le conseguenze delle scelte sono radicalmente diversi, ma che queste due cose siano vere smentisce due delle tante accuse peraltro giuste che vengono fatte nei confronti della decisione di Trump di venerdì sull’immigrazione. E danno a Trump il destro per ribattere, e avere buon gioco: è una cosa che capita spesso nelle buone battaglie, che qualcuno in buona o cattiva fede usi gli argomenti sbagliati e indebolisca le buone battaglie (è la storia della sinistra, forse).
Perché adesso Trump e i suoi sostenitori, e i sostenitori del divieto, stanno sostenendo che nei suoi confronti vengono usati due pesi e due misure. E questo è un argomento che vince e attecchisce, come tutti gli argomenti basati sulle superficiali rivendicazioni di coerenza e sulle accuse di ipocrisia: la rigidità è ritenuta un valore, e la duttilità nei confronti dei contesti diversi e delle complessità (il “dipende“) sono spacciati per inganno, nella comunicazione pubblica.
Quindi vorrei spezzare una bilancia in favore dei due pesi e due misure.
“Due pesi e due misure”, va bene.
È giusto giudicare le cose con metri differenti. A seguire la metafora, potrei persino segnalare come esempio che sulla Luna le cose hanno un peso diverso da qui, e se le misurassimo allo stesso modo per le esplorazioni spaziali sarebbe un problema. Ma sarò più terreno.
Se mia figlia tredicenne arriva a casa con una bottiglia di whisky gliela tolgo, se lo fa mio cognato no. Se mio padre senza patente mi chiede la macchina, non gliela do; a mio fratello sì. Se un elefante sta avvicinandosi a una cristalleria, mi preoccupo e chiamo qualcuno; se nella cristalleria entra una libellula no. Se Sergio Mattarella dichiara dopo un incontro ufficiale “interverremo contro la Slovenia nei modi adeguati” mi fido abbastanza che non succeda niente di grave; se Vladimir Putin dichiara “interverremo contro la Slovenia nei modi adeguati” penso sia da preoccuparsi, magari persino protesto. Penso sia necessaria una legge di riforma della Giustizia in Italia, ma quando la propose Berlusconi diffidai. Se da Presidente del Consiglio Matteo Renzi avesse proposto le Olimpiadi a Firenze ci saremmo insospettiti di più che se le avesse proposte Enrico Letta.
Questi pensieri sono “pregiudizi”, tecnicamente: sono cioè giudizi che uno si fa sulla base di esperienze, fatti e precedenti, ma prima di una ulteriore verifica dei fatti e delle conseguenze (magari mio padre guida benissimo e mia figlia regge il whisky). Nessun pregiudizio è mai completamente “pre”. Ma sono pregiudizi che esistono appunto sulla base di esperienze, fatti e precedenti, per i quali riteniamo che le stesse cose siano più o meno pericolose a seconda di chi le fa, e che le loro conseguenze possano essere diverse a seconda di chi le gestisce.
Il casino dei due giorni scorsi ha già confermato il pregiudizio, in questo caso: se uno che ha annunciato per anni di voler attuare un “muslim ban” e che ha predicato idee discriminatorie e razziste, e la cui gestione pratica delle cose e della comunicazione si è annunciata finora completamente cialtrona e demagogica, decide una misura come questa, c’è di che preoccuparsi e protestare. C’è da ritenere che non avrà le stesse attenzioni per le potenziali vittime di tutto questo che avrebbe avuto una persona dimostratamente ragionevole e sensibile. E vale anche per tutti quelli che in Italia a destra hanno accusato spesso molti di noi di consentire ad altri cose che a Berlusconi venivano invece contestate: c’erano delle ragioni. Non sempre, per carità, ma spesso.
E se uno che ha una montagna di conflitti di interessi e non appare insensibile alla priorità dei propri business sceglie sette paesi ed esclude quelli con cui fa affari, ci sta che qualcuno si insospettisca e diffidi. È questione della fiducia che ti sei guadagnato prima, diversa per tutti: ed è giusto che valga qualcosa.
Sono due pesi e due misure. Potete dirlo forte.
Aggiornamento: il tema della sospensione delle pratiche di accettazione delle richieste di asilo nel 2011 è complicato e controverso. Non trattandosi di un atto pubblico, le fonti sono alcuni report giornalistici del tempo (linkati sopra): il Washington Post aveva fatto ieri una ricerca che confermava una cospicua diminuzione degli ingressi, ma che poteva spiegarsi con una maggiore selezione di fatto delle richieste dopo il caso del Kentucky, senza che una sospensione formale fosse approvata. In un aggiornamento successivo l’ex capo dello staff di John Kerry ha negato che ci sia stato un ordine formale in quel senso (“while there were delays in processing, there was no outright ban”), cosa che quindi smentirebbe a sua volta l’argomento di Trump su questo. La versione finale del Washington Post è “Iraqi refugee processing was lowed, in response to a specific threat, but it was not halted”.