All’inizio di giugno del 2007 l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush fece un viaggio ufficiale in Albania (dopo essere stato in Italia), dove venne accolto con grande entusiasmo da tanti albanesi a cui andò incontro per strada, abbracciando e facendosi abbracciare sotto lo sguardo un po’ preoccupato degli agenti del Secret service addetti alla sua scorta. La scena fu notevole, e mostrata in fotografie e video su giornali, televisioni e siti web. Ma qualcuno si accorse subito di una cosa strana: nella prima parte della scena Bush, in camicia e con le maniche arrotolate, aveva al polso sinistro il suo orologio, un Timex di poco valore decorato a stelle e strisce che aveva esibito in altre occasioni. Poi la scena proseguiva con lui che protendeva ancora le braccia verso la gente a stringere mani e abbracciare teste, ma quando il braccio sinistro riemergeva, l’orologio al polso non c’era più.
Una storia bellissima: gli albanesi si erano fregati l’orologio di Bush.
C’è quel vecchio modo di dire sul giornalismo per cui una notizia sarebbe «uomo morde cane», mentre non lo sarebbe «cane morde uomo». In realtà non è mai stato vero: il giornalismo adora gli estremi e gli eccessi, e quindi si appassiona sia alle cose più straordinarie e imprevedibili sia a quelle più fedelmente ordinarie e prevedibili. La realtà che corrisponde ai luoghi comuni è una notizia: gli albanesi, popolo a cui le cronache italiane si sono dedicate nei passati decenni quasi soltanto per indicarli responsabili di crimini vari, rubano persino l’orologio del presidente degli Stati Uniti, e per giunta mentre gli fanno credere di salutarlo e abbracciarlo. Sembrava troppo vera per essere vera. E quindi con grande passione, per ventiquattro ore, siti e giornali riferirono del furto con moderate sfumature di dubbio.
Le immagini trasmesse oggi dalla televisione di Tirana «News24» mostrano che durante gli appassionati abbracci con la folla di Fushe Kruja, piccolo villaggio contadino dove il capo della Casa Bianca ha voluto concludere il suo viaggio, Bush ha perso l’orologio. Presente al polso sinistro del presidente all’inizio degli abbracci, l’orologio non lo è più pochi secondi dopo. Forse sottratto da un fan desideroso di souvenir o forse sganciatosi accidentalmente. [«La Stampa», 12 giugno 2007]
Ci sono un presidente americano, una folla albanese e un orologio. Ma alla fine restano solo i primi due. Sembra una barzelletta, ma a George W. Bush avrebbero davvero fregato l’orologio, bandiera a stelle e strisce sul quadrante. Non ci sono conferme ufficiali, il leader Usa non ha sporto denuncia. [«Corriere della Sera», 12 giugno 2007]
Invece – «purtroppo», dissero in molti – gli albanesi, popolo di grande onestà e sincerità, non si erano fregati l’orologio di Bush, alla faccia dei luoghi comuni. La Casa Bianca smentì infatti che l’orologio fosse stato rubato. Ma non solo: un video da un’altra angolazione mostrò che l’orologio se l’era tolto lo stesso Bush mentre le mani si protendevano verso di lui, e con un gesto rapido l’aveva passato probabilmente a un agente del Secret service.
E questa versione diventava addirittura migliore della precedente, in termini di luogo comune: il vero luogo comune all’opera infatti diventava quello dell’americano ricco e potente intimorito che gli albanesi potessero fregargli l’orologio da cinquanta dollari.
Purtroppo nessuna ulteriore ripresa video mostrò Bush che, stringendo le mani, rubava l’orologio a un albanese: sarebbe stato il vero uomo morde cane. Ma l’avventata ricostruzione falsa dei giornali si sommò a molte altre, in quei giorni: e la loro concentrazione mi suggerì di metterle in fila in un post sul mio blog. Tra le altre, c’era la storia del messaggio cifrato che era stato spedito dalla brigatista detenuta in carcere Nadia Lioce per ordinare delle minacce a monsignor Bagnasco. Dopo qualche giorno si seppe che le parole frammentate identificate sulla busta erano in realtà i resti del nome dell’organizzazione di volontariato che aveva donato le buste al carcere.
Un volontario in servizio nel penitenziario di Sollicciano, che in passato ha ospitato anche l’irriducibile br, dopo aver ascoltato ieri sera alcune notizie dei tg, si è messo in contatto con la difesa della Lioce per comunicare che quella busta, assieme ad altro materiale cartaceo di riciclaggio, era stata fornita anni fa a tutti i detenuti perché potessero scrivere lettere. La frase testuale, riportata sulla busta, farebbe riferimento all’intestazione dell’ente: «Associazione don Vasco Nencioni per la ricerca religiosa». Dalla cancellazione di alcune sillabe, si arriverebbe proprio a quel testo spezzettato e incomprensibile che ha spinto la polizia penitenziaria dell’Aquila a sequestrare quel documento, costato alla Lioce l’iscrizione sul registro degli indagati per associazione eversiva con finalità di terrorismo. [Agi, 13 giugno 2007]
Non solo: le stesse minacce (con un proiettile) mandate a monsignor Bagnasco da alcuni brigatisti su istruzioni di Nadia Lioce – con estesi commenti giornalistici sul ritorno della violenza brigatista, o, da destra, sulle persecuzioni antireligiose dei «comunisti» – si rivelarono invece essere state mandate da un ex carabiniere che sperava ne fosse incolpato un rivale in una questione personale.
Poi c’era stato, sempre in quei giorni, il caso del ciclista Ivan Basso che, stando ai giornali, si era pentito davanti ai giudici dell’uso di sostanze proibite e aveva denunciato altri atleti suoi colleghi. Però lo stesso Basso aveva convocato immediatamente una conferenza stampa per smentire di avere accusato qualcuno e sostenere ancora di non avere mai fatto uso di sostanze dopanti.
La mia lista di quel giugno comprendeva diverse altre storie che messe tutte in fila consegnavano una sgradevole sensazione di insicurezza rispetto a ciò che leggevamo sui giornali: in alcuni casi era colpa dei giornali, in altri di qualcun altro che aveva dato ai giornali informazioni e conclusioni sbagliate, ma in entrambe le situazioni i giornali non erano stati pazienti e prudenti.
Probabilmente avendo la stessa sensazione, mi telefonò Carlo Verdelli, il direttore della «Gazzetta dello Sport», che mi aveva coinvolto a collaborare col giornale da quando aveva introdotto la novità storica di alcune pagine non sportive, con la saggia e vincente idea di dare ai suoi lettori un’informazione più completa.
Verdelli mi chiese se volevo riscrivere per la «Gazzetta» quella raccolta di notizie (che non lo erano), come esempio dei fragili terreni su cui si muove il rapporto tra l’informazione e chi ne dovrebbe beneficiare. Lo facemmo, e la impressionò diversi lettori per quel che rivelava dell’inattendibilità di molte cose che ci aspettiamo vere quando le leggiamo sui giornali. Verdelli mi richiamò dopo averla pubblicata, il 2 luglio 2007, e mi propose di farla settimanalmente: io gli risposi che mi sembrava difficile riuscire a trovare «notizie che non lo erano» in numero sufficiente ogni settimana. «Prova» disse lui. Da allora, la rubrica è uscita ogni settimana per sette anni, fino a metà 2014, e non le è mai mancato il materiale.
(questo era il capitolo di Notizie che non lo erano che spiegava come era nato “Notizie che non lo erano”: lo ripubblico perché sono dieci anni oggi da quella prima notizia che non lo era e perché fa sempre bene ricordare che molte notizie false non nascono sui social network)