In estese parti del centrosinistra italiano si è radicato da vent’anni un mito vincente che col tempo si è sfocato in un sogno nostalgico che non ha niente a che vedere con la realtà, né quella attuale né quella di quando quel mito cominciò a formarsi: l’Ulivo. Un meccanismo di annebbiamento simile a quello di quando-c’era-lui-i treni-arrivavano-puntuali ha confuso la memoria e la capacità di analisi di quelli che c’erano e ingannato le ingenuità e speranze di quelli che non c’erano, tramandando l’idea di un precedente in cui il centrosinistra fu felicemente unito e concorde e vincente. E che quindi quel precedente sia replicabile, e che anzi quella sia LA strada verso un avvenire prospero e radioso.
Solo che quel precedente dice in realtà la cosa opposta: racconta cioè il risultato negativo inevitabile di un progetto interessante come tutti gli esperimenti, e che però appartiene alla categoria degli esperimenti falliti, che sono apprezzabili e proficui proprio perché ci dicono che quella cosa lì non funziona. “Ha dato esito negativo”.
L’Ulivo – una coalizione di partiti di centrosinistra che si spingeva molto al centro (c’era Lamberto Dini, per dire) e poco a sinistra (non c’era Rifondazione, per dire: con cui ci fu un accordo elettorale molto limitato) – si presentò alle elezioni nel 1996 radunandosi grazie al catalizzatore di Berlusconi, che aveva vinto una prima volta nel 1994 e rischiava di rivincere: e avendo come leader un uomo della sinistra democristiana, Romano Prodi. La coalizione non ottenne una maggioranza, ma la costruì, di 7 seggi alla Camera, grazie all’appoggio esterno di Rifondazione: pur avendo ottenuto meno voti di quelli che avevano preso sommati il partito di Berlusconi e la Lega Nord (che insieme superarono il 50% dei voti, ma per quella volta si erano presentati sventatamente divisi), per via della componente maggioritaria della legge elettorale del tempo, la “legge Mattarella”.
Come vediamo, i tre tratti principali di quel successo furono una inclinazione molto più di centro che di sinistra della coalizione, una sua grande varietà (dentro c’era una dozzina di partiti e partitini autonomi) e una maggioranza insufficiente, che non avrebbe potuto generare un governo senza l’appoggio esterno di Rifondazione: appoggio esterno che arrivò a durare appena due anni, e il governo Prodi oggi oggetto del mito cadde per ragioni che possiamo dire “scientifiche” dopo neanche due anni, nel 1998, quando Rifondazione si chiamò fuori.
Quel “successo” del 1996, insomma, è paragonabile a una vittoria calcistica ottenuta per esempio facendosi espellere quattro giocatori più forti: hai vinto, però al ritorno senza gli squalificati ti massacrano, come era prevedibile (è la ragione per cui nessuno cerca di vincere in questo modo). L’Ulivo vinse, ma al momento di governare pagò il modo in cui aveva ottenuto la vittoria.
Il governo Prodi fu seguito da un governo D’Alema che ottenne la maggioranza grazie al sostegno di gruppi formati da Cossiga, Buttiglione e Mastella (per dire) e da altri che erano stati eletti col centrodestra (per dire): e che infatti lo fecero cadere dopo un anno. Si trascinarono per spiccioli di legislatura un altro governo D’Alema e un governo Amato (sempre tenuti in piedi da Mastella), ma le loro durate e le loro maggioranze mostrano quanto il fiato dell’Ulivo di quasi maggioranza (con puntello di Rifondazione) si fosse esaurito nel giro dei primi due anni.
Nel 2001 l’Ulivo ci riprova, stavolta con dentro l’UDEUR di Mastella e fuori ancora Rifondazione, e perde da Berlusconi. I custodi del mito dovrebbe tenerne conto ma tendono a dimenticare i risultati di quella ripetizione dell’esperimento.
Nel 2006, terzo esperimento: una estesissima coalizione – che si è chiamata stavolta “l’Unione”, e che comprende anche “l’Ulivo” – che sostiene Romano Prodi ottiene pochissimi voti in più alla Camera e un po’ di voti in meno al Senato, e grazie alla nuova legge elettorale (la “legge Calderoli”, quella che poi chiameremo “Porcellum”) prende una maggioranza cospicua di seggi alla Camera e una maggioranza di solo un seggio al Senato.
Il nuovo governo Prodi – sostenuto di nuovo da una decina di gruppi parlamentari diversi, che generano 103 nomine di governo – stavolta non dura neanche due anni (e ha già una prima crisi superata rocambolescamente a metà percorso): Mastella a un certo punto se ne va facendo i suoi calcoli e la vittoriosa coalizione non può farne a meno. Fine della storia dell’Ulivo.
A scanso di irritazioni: ripeto che penso sia stato un esperimento saggio, benintenzionato, e che andava fatto. E che ha generato quattro (o sette) anni di governo, su 12, sicuramente migliori dell’alternativa berlusconiana: pur avendo concorso ai successivi tre anni e mezzo berlusconiani (Berlusconi stravinse, alla fine “dell’esperienza dell’Ulivo”, nel 2008: ciò malgrado, il PD di Veltroni prese più voti dell’Ulivo di Prodi nel 2006). Ma l’analisi dei fatti e dei risultati dice chiaramente due cose:
– che l’anomalia eccezionale fu la costruzione della coalizione, non la sua prevedibile caduta;
– che la coalizione fu “vincente” solo forzando molto i giudizi, ovvero aggiungendo l’appoggio esterno di Rifondazione e giudicando sulla base di leggi elettorali favorevoli. Altrimenti fu perdente.
A ognuno di giudicare se le cicliche rievocazioni sognanti dell’Ulivo siano un modello proficuo, o un riempitivo giornalistico: nel giudizio si tenga conto della attuale fase di massima litigiosità delle componenti che dovrebbero oggi ritrovarsi in un’altra fragile e instabile coalizione, e della plausibile prospettiva che ci aspetti una legge elettorale sostanzialmente proporzionale.
A me il progetto veltroniano e in parte renziano di “vocazione maggioritaria” – se eseguito un po’ meglio, diciamo – sembra tuttora una cosa molto più lungimirante e solida, a coltivarla bene: a meno che il nostro modello di successo a sinistra non sia una risicata semivittoria (in un sistema maggioritario con il centrodestra che si presenti diviso) a cui segua un governo democristiano che duri due anni (ovvero lo scorso governo Renzi, ma più breve e con le elezioni).
Perché questo fu, l’Ulivo.
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