Redimibili

Da diverso tempo mi gira in testa questa lettura – non promettente, lo so – delle cose italiane, che ho condiviso in conversazioni qua e là: che per molto tempo ci eravamo dati l’obiettivo di far crescere progressivamente al Sud i risultati di buona amministrazione, di appartenenza a una comunità nazionale, di senso di bene comune, di qualità di servizi pubblici, di legalità – insomma, di miglior funzionamento delle cose – che ci parevano discretamente raggiunti in luoghi più settentrionali dell’Italia (che a loro volta ci erano arrivati più tardi di luoghi più settentrionali dell’Europa); che il Sud fosse capace di mantenersi Sud in tutte le sue cose ammirevoli e al tempo stesso di “diventare Nord” sotto altri profili di modernità e successi economici, sociali, civili.
E che invece quello che sembra succedere da un po’ è che le inadeguatezze e fallimenti del Sud stiano salendo a nord, e che il malfunzionamento delle cose si sia ormai preso Roma e si stia espandendo in altre città, con un fenomeno contrario al “progresso”: progresso che credevamo inerziale e invece può evidentemente conoscere un’inversione. Somiglia un po’ a quella cosa per cui ci siamo chiesti a lungo perché sul senso di appartenenza, di comunità, di autorevolezza delle istituzioni, l’Italia non potesse diventare gli Stati Uniti, o il Regno Unito, e invece quello che sta accadendo è che gli Stati Uniti e il Regno Unito sono diventati l’Italia.

Dopo di che, finalmente, un’altra volta che ripetevo questo concetto, in una pizzeria di Palermo Roberto Alajmo mi ha guardato indulgente e mi ha ricordato che è una cosa che aveva già detto Leonardo Sciascia quasi sessant’anni fa: la linea della palma.
Già, la linea della palma: vedi a leggere le cose alle medie e non tornarci più.

Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma…

Poi, non contento, ho letto la nuova edizione di Palermo è una cipolla, il formidabile e divertente libro di Alajmo sulle cose e le storie della città, che è stato appena ristampato in una versione aggiornata. Tra le tante cose che ci ho scoperto, mi ha solo convinto un po’ meno il fatto che molti aspetti che sono descritti come peculiari contraddizioni e fallimenti siciliani mi sembra possano valere per tutta l’Italia. E in uno di questi casi c’entra di nuovo Sciascia: che siano “irrecuperabili” si dice infatti da qualche tempo di sempre più cose italiane: la Rai, Alitalia, Roma, persino la politica stessa o noi elettori… Ma Sciascia ci aggiungeva un’altra cosa, anche questa assai prima che pensieri simili ci venissero per distinguere il disincanto attuale dalla rassegnazione.

Un altro luogo comune coincide con la parola irredimibile. Quando Leonardo Sciascia spese per la Sicilia questo famoso aggettivo non poteva sapere il danno che stava per procurare. Sull’opinione pubblica rimase quel macigno a pesare su ogni speranza di riscatto. In realtà, andando a rivedere il contesto originale si getta una luce diversa sulle intenzioni dello scrittore di Racalmuto. «Irredimibile», disse Sciascia in un’intervista al settimanale «Il Sabato», quando il giornalista gli chiedeva di sintetizzare la sua terra in una sola parola. A quel lapidario «Irredimibile», però, Sciascia lasciò seguire una frase che ne precisava il senso: «…ma bisogna agire e pensare come se non lo fosse».
Cioè: continuare a sperare quia absurdum. Ecco la schizofrenia dei siciliani migliori, dilaniati tra ottimismo del cuore e pessimismo della ragione. In sostanza, l’ideale propugnato da Sciascia era quello di essere un po’ virtuosamente ottusi, e crederci malgrado ogni dato reale sia un’istigazione a smettere di crederci.

L’unica cosa che ci aggiungerei è che per molte persone questo non sia un “bisogna” o un sentimento di dovere: ma un’inclinazione innata, spontanea: ottusa, appunto. Anche non volendo, finiscono ogni momento – con le frustrazioni conseguenti – per pensare alle cose come se fossero invece emendabili, migliorabili, recuperabili: redimibili.

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