C’è la storia di un ragazzo adottato, forte a pallone.
C’è la storia di come lo abbiano preso al Milan, abbia conosciuto i più grandi, abbia deciso di continuare a studiare.
C’è la storia di un ragazzo che tre anni fa ha messo per iscritto quello che provano, scrivono e raccontano tantissimi ragazzi neri.
C’è la storia che un ragazzo si è ucciso.
C’è suo padre che dice che non c’è relazione tra il suo suicidio e le cose che scrisse.
Sono tutte storie: belle, importanti, o terribili.
Nel volerle mettere in un unico pastone retorico e confuso, nel dare valore a una di loro soltanto quando accade l’altra, nell’uso dei dolori dei giovani come una via di mezzo tra un caso da entomologi e un format da serie tv, nell’accantonare ogni riflessione sulla complessità e oscurità delle cose, nel nascondere ogni confronto con se stessi e con il proprio ruolo sotto l’alibi e il tappeto di una propria malintesa missione* (“le notizie si danno”), c’è un pezzo del disastro di parte della “grande” informazione italiana: e sui social network e nelle case se ne sono accorte, con rammarico e imbarazzo e con nessun compiacimento, tantissime persone. Preferivano non accorgersene.
*cercando di descrivere quest’idea di sé che motiva e legittima quello che molti responsabili del giornalismo italiano – direttori, vicedirettori, caporedattori, scuole – diffondono e tramandano, mi sono accorto che è un’idea che somiglia alla definizione dei più diversi integralismi fanatici.
Convincersi che una propria missione suprema di cui ci si è autoinvestiti e nominati devoti tutori, giustifichi e legittimi ogni scelta che promuove una maggiore visibilità della missione, a costo di farne pagare il prezzo a vittime innocenti sul cammino.