Le discussioni di questi anni sulla “cancel culture” hanno preso così tante pieghe e hanno mescolato così tanti argomenti diversi (solo per citare gli altri che hanno guadagnato un’etichetta anglofona: il politically correct, il woke, il metoo) che la voglia di infilarvicisi è passata da mo’.
Ma c’è un aspetto particolare che spero di poter isolare, che mi incuriosisce e che non ho visto citato finora. Ed è una spettacolare smentita al fatto che la pretesa “cancel culture” o il “non si può dire niente” o lo stesso vetusto “politically correct” siano una deriva di tempi nuovi e inediti, una regressione che sovverte i canoni comuni del dibattito e impone limitazioni alla libertà che ci eravamo sempre dati prima. Un’anomalia che scompiglia le nostre abitudini e ci costringe a subirne di nuove.
Le nostre civiltà, infatti, tutte, quelle che consideriamo più progredite e quelle meno, non hanno mai smesso di convivere con la più estesa e radicata forma di “cancel culture” ante litteram che esista: che sono le religioni e i loro canoni. Se c’è un ambito in cui “non si può dire” è accettato e tollerato, in cui il preteso rispetto di comunità particolari impone silenzi e inibizioni, in cui simboli, regole, sensibilità vengono imposti di fatto a tutti e anche a chi non li condivide o non comprende, sono le religioni. Persino nei nostri tempi democratici e liberi, cresciamo in sistemi che accettano qualunque libertà di espressione fuorché quella che riguardi religioni o chiese, protette da un “rispetto” che non è così rispettato in nessun altro contesto. E che le religioni richiedono a tutti: e non c’è bisogno di guardare ai peggiori fanatismi religiosi e alle loro reazioni violente nei confronti di chi dica cose che non-si-devono-dire, per conoscere la sanzione pubblica che pure le nostre tolleranti culture riservano alle cose che non-si-devono-dire. Noi viviamo in un paese in cui bestemmiare non solo è punibile e punito per il codice penale (ed è effettivamente sanzionato nei programmi della tv di stato), ma in cui è giudicato e sanzionato in quasi ogni contesto della vita civile: cioè, esattamente quello che pratica la “cancel culture” (e lo scrive uno che non si ricorda di avere bestemmiato mai in vita sua, malgrado la toscanità, e che non è mai tentato di farlo; ma che è consapevole che “non potrebbe”: esattamente come chiunque di quelli che si dicono limitati dalle correnti richieste del “politically correct”). Noi poi abbiamo una religione di stato che l’ha canonizzato, il “non poter dire” con criteri assoluti e fanatici: “non nominare il Dio invano”. Un comandamento.
Ma non vi fate distrarre dal caso puntuale del nome di Dio: è la discussione critica sulle fedi e sulle religioni a essere forzatamente rimossa dal dibattito pubblico, in nome di un “rispetto” che proprio perché riservato a scelte irrazionali respinge qualunque argomento razionale. Sono le richieste di rispetto delle esigenze specifiche dei credenti, dei fedeli e delle chiese a essere prese in enorme considerazione, e persino normate, nelle nostre società. Ehi, fermatevi: non voglio aprire qui un dibattito critico sulle fedi e sulle religioni, troppo vasto programma. “Ho molti amici credenti”. Quello che voglio dire è: non veniteci a parlare di “eccessi della cancel culture” o di “eccessi del politically correct” in un paese in cui è ritenuto gravemente offensivo esprimere giudizi sulle fedi e su chi le vive, sulle religioni e sui comportamenti loro associati; in cui si commenta “e che sarà mai” rispetto a qualunque battuta o considerazione discriminatoria sui cinesi, sugli omosessuali, sulle donne, sugli immigrati, sugli anziani, ma sui cattolici – per esempio – non ci si permette. E in cui qualcuno si scandalizzerebbe persino di questi pensieri, a conferma di.
Se siete di quelli per cui certe cose “non si devono dire” quando coinvolgono i credenti e i loro credi, e per cui chi le dice deve essere oggetto di riprovazione collettiva (e a volte persino di sanzione formale e sostanziale), siete esattamente dei promotori di “cancel culture”. Anzi di “eccessi del politically correct”. Sono sempre esistiti, entrambi, intorno a noi. A volte imposti, e a volte generati da un’idea di rispetto e tolleranza assai apprezzabile, per quanto censoria e liberticida. Ma è la stessa che viene applicata ora in difesa e rispetto di altre comunità, niente di nuovo.