La stupidità del male

C’è un grande business, di soldi e di potere, intorno alle divisioni, alle partigianerie, e in ultima analisi alla stupidità. La nostra, di umani. Più siamo stupidi, ignoranti, più questo business prospera: ed è un business oculato e accorto, che ha capito che lo strumento maggiore per ottenere profitti e potere è quello di incentivare identitarismi settari e domanda di nemici e di affermazione di sé, a cui vendere un’offerta di propaganda e strumenti per sfogare questa domanda.

Leader e partiti politici, grandi e piccoli mezzi di comunicazione, piattaforme tecnologiche, tutte beneficiano dell’impoverimento intellettuale dei loro elettori, lettori, utenti. Occhio, che non sto evocando grandi complotti mondiali di poteri occulti, ma solo – solo, poi – interessi diversi e indipendenti che si sovrappongono e allineano e congiungono, e spingono nella stessa direzione: sono i più grossi e visibili, ma vi si uniscono tanti altri piccoli interessi, compresi quelli di molti di noi individui, a volte. Tutte le nostre posizioni e opinioni schematiche, binarie, rigide, faziose, partigiane, che siamo convinti siano spontanee e deliberate, “pensate” – in parte lo sono, per quelli di noi più naturalmente stupidi – sono in realtà create e plasmate dagli input che riceviamo da questi business di denaro e potere, che ci spingono a pensare in questo modo. Tracciando una riga, posizionandoci, esistendo, e non muovendoci più da lì. E poi votando per partiti o ammirando “leader” in base a quello che abbiamo letto su giornali o siti (tradizionali o “alternativi”), che ci viene trasmesso da grandi piattaforme tecnologiche. L’eventuale scardinamento di queste rigidità e meccanismi genererebbe perdite economiche e di potere, non “conviene”.

Questo spiega – tra i tanti istupidimenti del dibattito contemporaneo su ogni cosa – la grandissima parte delle opinioni che si leggono su Israele e sulla Palestina. Ieri sono stati liberati quattro ostaggi israeliani sequestrati da Hamas durante i massacri del 7 ottobre. È una bella notizia. Per liberarli sono state uccise decine di persone, innocenti come loro, persone come loro. In base a cosa riteniamo queste vite di minore o maggior valore rispetto a quelle degli ostaggi? In base a succube appartenenza, non ci sono altre ragioni. Da parte di Israele c’è – per ragioni storiche assai conosciute, spiegate e persino in parte “comprensibili” – un’idea che le vite degli ebrei valgano di più delle altre: non è una tesi mia, è proclamata e dimostrata coi fatti da decenni. Quelle degli altri valgono meno. Ma, chiederebbe un candido arrivato da Marte o qualcuno capace di pensare in autonomia, che cos’ha questo di diverso – nella natura, non nelle radici storiche, ovviamente – dall’antisemitismo?

A metà del paragrafo precedente per chi non arrivi da Marte il meccanismo è già scattato: quello che scrivo viene passato attraverso la lente della faziosità, dell’appartenenza, della partigianeria, e della necessità di protagonismo di ognuno soddisfatta dal poter mettersi da una parte o dall’altra. Il business funziona benissimo, infatti: sto scrivendo dalla parte di Gaza o di Israele, si chiedono molti lettori di questo stesso post?

Sto scrivendo dalla parte di tutti e due (ah, quindi dalla parte di Hamas! ah, quindi dalla parte dei sionisti!). Non si è buoni o cattivi per definizione e a vita, non si è dalla parte giusta per inerzia. Vittime e carnefici non ce lo hanno tatuato o scritto sul documento di identità: si è vittime o carnefici in base ai fatti, e al contestuale significato del termine. Ieri l’esercito israeliano è stato carnefice, e tantissimi palestinesi uccisi in quell’operazione sono stati vittime: essere “dalla parte delle vittime” avrebbe significato, ieri, essere dalla parte loro, proprio come fino a poco prima avrebbe significato essere dalla parte degli ostaggi, e in generale significa essere dalla parte di tante persone che non sono nella stessa curva. Solo si dà il caso che la realtà sia complessa, e che non sia una partita di calcio da decidere ai rigori e poi esultare e chi se ne frega dei perdenti, o soffrire e maledetti i vincitori.

Noi però siamo stupidi, e nutriti dal business della stupidità e delle curve, e siamo in grado di avere solo un’opinione, che ci fa credere di essere speciali: le sfumature sono dei deboli, le distinzioni sono dei vili, va forte il “senza se e senza ma”. Addirittura sopiamo emozioni e sentimenti ovvii: perché soffrire per le vite di alcuni e di altri no, quando le loro vite ci sono egualmente distanti? La risposta è: perché quello che ci muove siamo noi stessi, il nostro bisogno di esistere, il nostro bisogno di avere un ruolo, la nostra frustrazione perché tutto intorno ci dice che non lo abbiamo abbastanza, il nostro sentirci capaci di idee e appartenenze che crediamo indipendenti, e non lo sono. Faziosità e fanatismi sono identici, identiche le cecità, intercambiabili le posizioni. Conta che siano “posizioni”. E per tenerle abbiamo bisogno di stupidità, della stupidità che ci fa ragionare come se le cose fossero isolate e in compartimenti stagni, figurine irreali, come se “Israele” fosse una cosa sola, come se gli “ebrei” fossero una cosa sola, come se i “palestinesi” fossero una cosa sola («sostengono tutti Hamas!»), come se i diritti e le persone esistessero solo nella curva che ci siamo scelti: lo slogan “dal fiume al mare” è genocida e nazista, ma nella testa di molti in Israele c’è da tempo una sua equivalente applicazione nei confronti dei palestinesi.

Se risaliamo alle cause, possiamo sicuramente imparare tanto dalla storia dell’antisemitismo, delle persecuzioni naziste, della creazione di Israele, e dell’occupazione dei “territori” e della segregazione dei palestinesi. Chi verrà dopo dovrà imparare anche del 7 ottobre e dell’annientamento di Gaza. Ma dopo avere imparato tanto, resta che indietro non si può tornare: qualunque eventuale – e improbabile – soluzione passa per compromessi, sacrifici, e dolori e ingiustizie permanenti. Che si possono forse attenuare e condividere – tutti – affrontando tutto con umanità e raziocinio: ma per come lo stiamo affrontando ora – la maggior parte di noi – siamo parte del problema. Siamo un esempio del problema, ugualmente succubi e responsabili, non diversi dai peggiori che accusiamo.

(sì, l’avevo già scritto, e pure da poco)

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