Una giornataccia come approccio alle cose

Da molto tempo penso che tutte le letture “economiciste” sui cambiamenti politici e sociali nei paesi occidentali di questo millennio siano figlie di un tic di analisi poco elaborato che appunto porta a ricondurre ogni fenomeno soltanto a meccanismi legati alle diseguaglianze di condizione economica: l’aumentato divario tra i più ricchi e i più poveri, l’incapacità dei partiti progressisti di rappresentare ancora i bisogni dei meno privilegiati, le crisi economiche e finanziarie, sarebbero i fattori decisivi e assoluti del successo dei “populismi” cosiddetti e del consenso cresciuto e manifestato nei confronti dei movimenti e dei politici antidemocratici e violenti, a parole o nei fatti. Ed è affrontando queste questioni che i suddetti sarebbero sconfitti e il progetto progressista tornerebbe, come da definizione, a progredire anche nei fatti.

Una seconda, minoritaria, analisi ha naturalmente insistito anche sul tema delle necessità identitarie da parte delle persone, le necessità di ritrovare un riconoscimento di proprie appartenenze, che siano nazionaliste, razziali, culturali o altro: necessità che nella maggior parte dei casi vengono presentate non tanto come aumentate in assoluto, quanto deluse dalle globalizzazioni e dal superamento di molti confini e divisioni e bisognose quindi di trovare nuove soddisfazioni. Appartenere a qualcosa che si presenti come forte, riconoscibile, competitivo, definire nettamente i suoi contorni, e definirli anche attraverso l’individuazione e la competizione e lo scontro con l’altro, col diverso, col nemico.

Senza naturalmente diminuire l’evidente rilevanza di questi fattori (e con l’impressione che il secondo sia oggi assai più importante del primo, al contrario di quanto sembra pensare molta analisi tuttora novecentesca), mi pare che si trascuri intanto, per abitudine ad associare macrofenomeni a macrofenomeni, un cambiamento nelle scelte delle persone a cui non so dare un’etichetta categorica – più individuali? più personali? più psicologiche? più emotive? – ma che hanno a che fare più con un sistema culturale e comunicativo che induce frustrazioni, delusioni e competizioni nelle teste dei singoli a prescindere da cambiamenti negativi nel contesto economico e sociale (e anzi anche in presenza di miglioramenti oggettivi delle condizioni) e che al tempo stesso offre oggi molti nuovi strumenti di manifestazione di risentimento e sfogo di quelle frustrazioni, delusioni e competizioni.

Come dicevo, sono pensieri che ho da parecchio, e non escludo che a loro volta dipendano dalla mia, di testa, e dalla mia percezione di come ci comportiamo. Ma li avevo dieci anni fa, ho raccolto nel tempo simili impressioni da molti osservatori che vanno da Giuseppe De Rita a Carlo Verdone, e le apparenze hanno continuato a convincermene.

È successo anche un cambiamento culturale, non solo socio-economico. Le persone sono state educate dai cambiamenti tecnologici e dalla comunicazione di ogni genere ad avere necessità molto maggiori di affermazione di sé, molti più strumenti per cercare di soddisfarle, e molte più frustrazioni per il non riuscirvi mai abbastanza. Ci siamo convinti tutti di meritare di più, di poter ottenere di più, e di dover accusare qualcun altro se non ci riusciamo. Ce ne hanno convinti molto la televisione, prima, e poi internet, soprattutto. E in più internet ci ha anche dato gli strumenti che ci hanno illuso di poterlo ottenere, la famosa e giustamente ammirata “libertà di internet”, l’accesso per tutti a mille cose prima impossibili (io ci ho fatto un giornale, per esempio) ci ha abituati a pensare che tutto ci sia accessibile: con un malinteso senso di eguaglianza che annulla ogni forma di “merito” o qualità, un malinteso egualitarismo che invece di chiedere che tutti comincino la gara a pari condizioni, vuole che a pari condizioni restino tutta la gara e a pari condizioni la finiscano. Un senso di competizione permanente che trasforma in privilegio ogni successo altrui e in ingiustizia ogni fallimento proprio: innescato dapprima da una quantità enorme di reali privilegi e reali ingiustizie, ma poi divampato a diventare una lettura del mondo, della vita e della realtà. Qualcuno sta cercando di fregarci. E che ha come corollario l’incazzatura e la frustrazione permanenti, modi di pensiero che riattizzano il circolo vizioso.

Se sto qui a riparlarne, a parte l’altrettanto umana e insicura insistenza dovuta al timore che nessuno mi dia retta, è perché questi discorsi mi pare si applichino molto anche al tentativo di capire chi siano e cosa muova i cosiddetti “no vax” di cui tanto – anche troppo, certo – si parla in questi giorni. Ho dedicato del tempo a scorrere account social discretamente frequentati, nei giorni scorsi, ad ascoltare alcuni di loro (parlo degli agguerriti, non chiamo “no vax” quelli che semplicemente non si sono vaccinati per ragioni diverse, criticabili o no, e che si fanno i fatti loro) nei video circolati online, e l’impressione è sempre quella: che tutta la loro eventuale costruzione ideologica e propaganda informativa sia anch’essa l’occasionale risultato di un bisogno di esistere, di un carattere individuale, di un percorso personale, che in altri tempi non avrebbero vissuto con altrettanto disagio e che in altri tempi non avrebbe trovato simili occasioni di sfogo e di realizzazione. Molti di loro, mi spingo a un’esagerazione per capirci, sarebbero probabilmente oggi bellicosamente “sì vax” se il contesto intorno, le maggioranze e le istituzioni stessero dicendo che non bisogna assolutamente vaccinarsi e stessero vietando loro di vaccinarsi (a cominciare dai politici che li sobillano strumentalmente). Il contenuto del messaggio e dell’ideologia sono palesemente poco rilevanti: lo è che ci siano un messaggio e un’ideologia di cui impadronirsi, che creano un’opportunità di sfogo di risentimenti e frustrazioni da una parte, e di esibizione di sé, di possibilità di “esistere” (anche ai propri occhi), dall’altra.

Ripeto, se ce n’è bisogno, non credo che queste pressioni e opportunità relative ai bisogni emotivi riguardino solo i “no vax” o i succubi del populismo: riguardano la totalità delle persone e non è facile oggi non esserne contagiati in modi simili, nei meccanismi contemporanei della comunicazione. Ma vite, caratteri, ambienti culturali, media, bolle, portano a reagire in modi diversi, e quello violento, divisivo e conflittuale è uno che negli anni passati si è molto esteso, prevalendo spesso su altri più moderati e ragionevoli (se non è maggioritario nel caso dei “no vax” è solo perché a differenza dei consensi umorali per i partiti populisti, qui la gente vede che muore). Quello che volevo ripetere – senza tornare sui meccanismi di disgregazione che hanno portato a tutto questo o sui contesti che allevano le emozioni suddette -, è che il macrofenomeno da tenere d’occhio, qui, mi pare un altro rispetto alle solite e importanti dinamiche di classe ed economiche: ovvero la mutata percezione di obiettivi, successi e fallimenti personali, e i mutati modi di sentirsi in competizione con gli altri e col mondo. Bisogni di esistere e diversa idea di cosa significhi.

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