Come ha scritto correttamente un editoriale di Avvenire sabato, la questione della sentenza sulla eventuale “trattativa tra lo Stato e la mafia” è complessa, ha aspetti che non si conoscono ancora, e sfumature legali su cui molti di quelli che ne parlano sembrano non avere nessuna competenza: il 90% dei commenti è un polverone basato su interessi strumentali indipendenti dalla comprensione delle cose, che in misure diverse si riassumono in “ho ragione io!”.
L’anima dannata di questa baracconata inconcludente, in cui ognuno trova appigli per tirare acqua al proprio mulino, è ancora una volta l’abitudine a ridurre le discussioni e le comprensioni delle cose a una battaglia intorno a singole e sfuggenti parole, che ognuno può interpretare come vuole a beneficio del proprio desiderio di segnare un punto. In questo caso, “la trattativa”.
Litigare se la trattativa ci sia stata o non ci sia stata, evitando di approfondire a cosa ci stiamo riferendo, come fanno articoli e titoli infantili, è completamente sterile. Se chiami “trattativa” qualunque contatto che le istituzioni dello stato abbiano con dei criminali per ottenere un risultato che protegga la comunità, è trattativa anche discutere delle sue richieste con chi abbia preso degli ostaggi, è trattativa offrire sconti di pena a chi collabori, è trattativa applicare delle attenuanti a chi dimostri di avere abbandonato le attività criminali dopo un reato, è trattativa ascoltare chi stia per farsi esplodere. Lo Stato salva e protegge persone quotidianamente, attraverso trattative: il nostro sistema giudiziario e investigativo è una grande trattativa, e il ridurre le complessità e varietà dei contesti in cui si devono fare scelte delicate, trovare compromessi, limitare le perdite, a “era o non era una trattativa” dimostra quanto vacue e strumentali siano le intenzioni di chi si concentra a volere sostenere o negare quello.
Se invece “trattativa” è una parola che non corrisponde a queste consuetudini di sicurezza ma si usa – impropriamente: in italiano vuol dire altro – per definire dei cedimenti complici e illegali dettati da ragioni diverse dalla protezione dei cittadini e dello Stato e da interessi colpevoli, allora tutte queste cose vanno dimostrate. Non si può, per sostenerlo, rimbalzare sulla definizione precedente a piacimento, dimostrando solo che ci siano state delle normali comunicazioni.
La sentenza della settimana scorsa (“aspettiamo le motivazioni!”) giustamente non affronta la questione in questi termini: si è occupata di capire – perché alla discrezionalità delle autorità in questa varietà di scelte e contesti abbiamo messo dei limiti – se siano state violate delle leggi. E ha concluso che no.
Che conclusione noiosa, già.