Un piccolo pensiero linguistico notato di recente, che mostra la frequente incoerenza dei nostri convinti impegni, e quanto siano spesso legati a mode disattente, tic, conformismi o occasionali affermazioni di sé.
Un sacco di noi discutono da mesi delle proposte per rendere la lingua italiana più “inclusiva” rispetto alla prevalenza dell’uso del maschile non solo nelle forme neutre ma anche nel riferirsi a soggetti che sono femminili: e questa sproporzione è spesso criticata, con giusti e benintenzionati tentativi di attenuarla attraverso interventi deliberati e a volte anche forzature e impegni che un giorno possano diventare naturali. La sindaca, in Italia non lo diceva praticamente nessuno anche solo dieci anni fa.
Poche frasi più in là, intanto, continua ad estendersi presso tutta la popolazione – e tra poco diverrà prevalente, se non lo è già – l’abitudine a usare il pronome “gli” al posto di “le” anche quando ci si riferisca a un soggetto (o meglio a un complemento) femminile: soprattutto nel parlare, tra chi lo ha sempre fatto e chi ha abbassato la guardia o si è fatto contagiare, “ho chiamato mia sorella per fargli gli auguri” è diventata la norma, assai più della forma “corretta”. Con una grande indulgenza nei confronti appunto del naturale adeguarsi all’uso, indulgenza che non si pone minimamente in questo caso il problema della prevalenza del maschile, e anzi contribuisce ad aumentarla anche dove non c’era. Con una mano creiamo femminili che non c’erano, con l’altra aboliamo quelli che esistono.
Ma battaglie su questo, io non ne vedo, accanto agli alati, creativi e complessi dibattiti – per carità, preziosi e interessanti – sullo schwa.
Siamo buffə tipə, no?