Vexata quaestio

Oggi a Morning, un podcast che seguo, il conduttore ha raccontato un paio di cose sui quotidiani di oggi che sollevavano la frequentissima questione di come comportarsi – da giornalisti sui giornali, o da persone sui social network – “quando qualcuno dice qualcosa di particolarmente sciocco, di particolarmente aggressivo”.

Parlarne, denunciarlo, raccontarlo, serve a combattere quella cosa sciocca o aggressiva o fornisce a quella cosa, a quella idea, una visibilità che comunque la rafforza?

La risposta non è facile come alcune opinioni ogni tanto perentoriamente affermano (“non dovete dargli spazio!”, “vanno denunciate!”): perché dipende, come dimostra il fatto che spesso gli stessi che oggi dicono “non dovete dargli spazio” domani “denunceranno” una cosa paragonabilmente stupida. E io credo che alla fine sia questo un criterio più utile di giudizio su come comportarsi, insieme a quelli alternativi descritti da Costa: guardare se stessi insieme a quello che si vuole dire. Ovvero farsi la domanda “sto parlando di questa cosa o sto parlando di me?”: sto pubblicando questa cosa sul giornale per raccontarla io, per ottenere attenzione, per ottenere lettori per me e per il mio giornale (o per il mio account sui social network), oppure perché penso che sia necessario e utile, e la cederei a qualcun altro da raccontare se ricevesse altrettante o maggiori attenzioni? Sto promuovendo questa cosa su cui indignarsi e protestare, sto diffondendo un’informazione utile, o sto usando qualcosa che faccia vedere me, il messaggero, assieme al messaggio?
Non è facile, bisogna avere una coscienza, o uno specchio: e non è detto che le due cose – desiderio di visibilità del messaggio e del messaggero – non possano a volte convivere (anche la coscienza e lo specchio). Ma anche in quel caso è sempre utile a se stessi dare un’occhiata al proprio dito assieme alla luna, e avere consapevolezza dei fattori delle proprie scelte, prima di averle fatte.

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