Sono stato la prima volta in Israele ventidue anni fa (l’ultima all’inizio di quest’anno): potrei dire che sia impressionante quanto le cose viste e ascoltate allora siano ancora attuali e uguali, ma sarebbe supponente nei confronti di chi oggi potrebbe scrivere lo stesso incipit parlando a sua volta di “trent’anni fa”, “quarant’anni fa” o “cinquant’anni fa”. Quindi scrivo un po’ di pensieri e riflessioni personali a beneficio di chiunque possa trovarli utili da essere aggiunti ai propri: l’unicità “senza paragoni” di quello che succede in quel paese rende incompleta e parziale qualunque ricostruzione e opinione si possa avere, e a generarne mille oppure nessuna. La cosa più utile e sana è saperne sempre di più, capirne sempre di più: e non è mai abbastanza.
Per me fu prezioso trovarmi a leggere quotidianamente per diversi mesi i giornali israeliani, e diversi libri (su Israele, dalla parte dei vincitori, consiglio sempre La mia terra promessa di Ari Shavit, malgrado i guai in cui si è cacciato l’autore). E poi naturalmente tornare, con la fascinazione per una storia e un paese unici, e il senso di colpa di conoscere sempre un po’ meno dei vinti, in quella storia.
Una cosa l’ho già detta: il “conflitto” israelo-palestinese è senza paragoni, e metto tra virgolette lo stesso termine conflitto perché si tratta di una questione irriducibile a una parola, come lo sono “questione”, “problema”, eccetera. Non è una banalità dire “senza paragoni”, ma un punto rilevantissimo per la nostra comprensione delle cose, letterale: i paragoni ci aiutano a capire, ci aiutano a giudicare, ci portano ad applicare valutazioni esistenti, conoscenze radicate, a storie nuove e diverse. Con Israele non si può: la storia di quello che è successo lì (e di quello che era successo prima, per secoli) non è riducibile a nessuno schema di giustizia o di convivenza che possiamo traslare dalle altre nostre esperienze di giudizio. Non c’è “un’unicità”: le unicità spuntano come funghi, nelle riflessioni su Israele e sulla Palestina, nelle loro storie, nello sguardo su qualunque luogo di quella regione del mondo.
Una seconda cosa discende dalla prima, ed è terribile, e spiega in parte la rassegnazione del mondo in questi decenni: non ci sono prospettive realistiche di “soluzione” di nessun tipo, nel 2023. Laddove con soluzione si intenda un compromesso soddisfacente, fatto di sacrifici, per tutti i popoli coinvolti, e non l’annientamento – fisico o sociale – di uno di questi popoli. Questa cosa bisogna averla presente e dirla: non per rinunciare a lavorare per una soluzione, come si è rinunciato in questi decenni, ma per non contribuire al peggioramento delle cose attraverso analisi e ipotesi ingenue o fallaci. Le cose che vuole la maggioranza degli israeliani e quelle che vuole la maggioranza dei palestinesi nei territori occupati non hanno oggi nessuno spazio di compatibilità o convivenza. Israele tiene le persone palestinesi in una condizione che non vuole che sia chiamata “apartheid” – e fa bene, che le etichette non aiutano mai a capire le cose – ma che è contraria a qualunque criterio di diritto, giustizia e civiltà (e la considerano tale molti cittadini israeliani), e intacca gravemente la definizione di “democrazia” che gli attribuiamo: e però lo fa perché è l’unico modo per garantire la propria sicurezza e dei propri abitanti. Se oggi Israele scegliesse di rimuovere questa condizione – o anche alcune sue quote – succederebbe quello che è successo sabato moltiplicato per mille, e la fine di Israele e delle sue persone.
E qui molti staranno già riflettendo su queste cose in termini di colpe, di responsabilità, di scelte sbagliate nel passato: pensieri umani e legittimi, ma inutili rispetto alla comprensione seria delle cose, e che anzi la allontanano. Decidere chi è il cattivo, o chi è più cattivo, è una semplificazione facile e che rende più comodo il proprio approccio alle questioni, ma è il più grande ostacolo alla conoscenza della complessità delle cose. Che non significa che non ci siano i cattivi – ci sono, eccome: e soprattutto ci sono le vittime – ma che ricondurre le proprie speranze nel futuro all’annientamento dei cattivi non risolve niente, e non ha risolto niente finora.
Quindi riprendo da poche righe sopra: usando un breve passaggio in un sintetico articolo di spiegazioni uscito ieri sul Corriere della Sera.
Che fine hanno fatto i negoziati di pace?
Non esistono più da anni. Quella fra palestinesi e israeliani, ormai la chiamano la pace impossibile. Uno dei più lunghi conflitti della storia moderna. L’origine di tutti i focolai in Medio Oriente. Dal 1946 a oggi, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato 700 risoluzioni, più di 100 ne ha votate il Consiglio di sicurezza. La comunità internazionale ha esaminato almeno 20 piani di pace. Ma dopo 56 anni d’occupazione dei Territori palestinesi, adesso che fra arabi e israeliani siamo entrati nella quindicesima guerra in più di 70 anni, qualunque soluzione sembra lontanissima.
Da sabato in Israele c’è una vera e propria guerra, scatenata da Hamas con una violenza crudele e disumana che in questo caso rende tenue persino la definizione di “guerra”. Senza paragoni.
E la cosa che c’era prima non è considerabile una pace, nei termini in cui le persone civili e ragionevoli concepiscono la pace.
Poi c’è un’idea di “pace” non altrettanto chiaramente espressa ed elaborata, che attribuisce al termine un significato più ambizioso: che le persone, cioè, vivano in pace le une con le altre. Che non significa solo che smettano di ammazzarsi, o che lo facciano meno, o che non reagiscano quando un potere locale o estraneo le ammazza o perseguita: significa “vivere in pace”, escludere ben altre forme di violenza e di repressione della libertà, e cercare di raggiungere questa condizione (con le “armi della non violenza” ma anche con le armi e la violenza, per il tempo e al prezzo necessario per raggiungere più duraturamente quella condizione, quando ogni altro mezzo sia inerme).
E di nuovo, diffiderei chiunque dall’attribuire a queste considerazioni delle intenzioni di “equidistanza” o di assoluzione, di chiunque. Niente è paragonabile o soppesabile nemmeno in questo senso: violenza e ingiustizia non si misurano con i bilancini e non si attenuano con “ha cominciato lui”. Se lo scrivo è per dire che questa idea di pace e di convivenza e di rispetto per la vita delle persone in Israele non esiste da quasi un secolo e non esisterà ancora per molto. E soprattutto, peggio ancora, le prospettive sono peggiorate, appunto: dando alle nostre “società civili” un’occasione per confrontarsi con un problema di enormi dimensioni e forse senza soluzione (cosa che spiega il diffuso ricorso a semplificazioni rassicuranti). Ragione di più, secondo me, per non lavarsene le mani o aderire a posizioni comode e ingenue: lavarsene le mani ha contribuito ad arrivare fin qui. In cosa si concretizzi questa riflessione per ognuno di noi, non lo so – soprattutto in tempi preoccupanti anche per i nostri resti del mondo – se non per una piccola cosa: in conoscere, studiare, capire, andare quando si potrà. Le cose le cambia chi le conosce.